Mario Corte 
 


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Ad bestias

Vocifuoriscena
Collana: I ciottoli
Pagine: 194
In copertina: Franz Marc, Der Tiger
Prezzo: 15,00 Euro
Codice: 9788899959029

Una versione molto più ridotta della storia, in forma di racconto, era stata inserita nel 2011 nel volume La morte muove e perde in sette mosse, pubblicato dall’Editore Il Ciliegio e vincitore del Premio speciale Targa Il Molinello 2012.

Ad bestias è una vicenda in cui reale e surreale si intrecciano dalla prima all’ultima pagina, ma è anche la “storia psicologica” del suo protagonista, un bambino di sei anni, di chi lo ha strappato al suo mondo di innocenza e di chi non ha saputo ascoltarlo, scegliendo la propria pace a danno di quella del bambino.

I miei editori sono stati così generosi da parlare, riguardo alla concezione, alla struttura e ai personaggi del romanzo, di “realismo magico” e di approfondimenti psicologici che mi accosterebbero – bontà loro - ad autori che non mi azzarderò mai a nominare. Grazie. Io non lo so: sono capitato nella narrativa quasi per caso (di solito scrivo libri di tutt’altro genere), in un’età non più verde e senza particolari ambizioni. Mi basterebbe che voi lettori, che siete gli unici depositari della… verità, foste contenti di leggermi e che vi restasse qualcosa di ciò che ho scritto. Per il resto… vedremo.

 

La storia

Michelino viene al mondo quando l’odore di polvere da sparo della guerra si sta ancora dissipando. I prati del suo quartiere nascondono l’insidia delle granate e delle bombe d’aereo, e durante le passeggiate ogni suo passo è contrappuntato da un coro di “stai qui non ti allontanare non toccare niente non correre oddio che è quella cosa lì per terra”, accompagnato dal racconto fiabesco di bambini saltati in aria o mutilati da quegli ordigni.

Per lui, però, il pericolo non si nasconde nei prati, ma nei recessi di quella tana di vipere, tanto vicina quanto insospettata, che è la famiglia di suo padre. Mentre Michelino è immerso nel regno incantato dell’avventura e della conoscenza, con le nuvole che prendono forme umane e lo salutano, i grattacieli dell’America che si stagliano sul disco del sole al tramonto ed esseri luminosi che gli appaiono in terrazza per accompagnarlo nel suo cammino sulla Terra, un evento inesplicabile lo strappa al suo mondo e lo getta in una dimensione guasta e non più gestibile: l’abuso da parte della zia.

Ed ecco Michelino entrare nel territorio desertico della colpa che cerca incessantemente di eludere se stessa e invece si rinnova ad ogni istante, presentando, come in uno specchio, le deformità provocate da un peccato originale imprevisto e insanabile. Braccato dalla sua stessa ombra, il bambino non ha altra strada se non quella di diventare grande: così, se mai i suoi scheletri saranno disseppelliti, gli occhi del mondo lo guarderanno con la tolleranza con cui si guarda a chi è troppo sviluppato per seguire le regole di un’età acerba e ancora penosamente inadatta alle prassi degli adulti.

Sul destino di Michelino si abbattono non solo i vizi, ma anche le incompiutezze personali, le predilezioni, le invidie e le vendette trasversali che attraversano la storia della sua famiglia. Michelino diventa l’emblema del bambino che non può dire la verità e affronta la solitudine di chi ha vissuto esperienze che nessuno è disposto a sentire.

Ma al centro di tutto non c’è il bambino, perché Michelino è solo l’occhio che guarda quei personaggi, estremi perché universali, che sono i veri poli di attrazione della storia: la zia Giunta con la sua brama di approfittare di tutto e di tutti, la nonna Jole con la sua assenza di scrupoli e le sue astuzie che celano il senso di nausea per la vita di chi sopravvive alla morte dei sentimenti, il padre Mario e la madre Lucia con la loro onestà troppo cieca per vedere il male e la loro innocenza troppo pigra e distratta per non esserne complice.

In uno scivoloso equilibrio tra incubo e realtà, Michelino si ritroverà a vagare in dimensioni tenebrose e infernali, divenendo una preda condannata a sfamare le orrende creature evocate dai vizi dei grandi. Riuscirà a sopravvivere alla sua damnatio ad bestias solo grazie a se stesso: i genitori, Celeste la “nonna buona”, il frate con cui si è confessato la prima volta e a cui ha taciuto l’unico peccato che avrebbe voluto raccontare, sono tutti fantasmi che si scioglierebbero come cera se fossero sottoposti alla tortura della verità. Non sono pronti: lo dicono le loro facce, i loro sguardi vacui, quel senso di affettuosa e impaurita distanza con cui lo accolgono, come a volergli dire: “Sei un caro bambino, ma non togliermi la mia pace: lasciami dove sono, non portarmi dove non saprei più che cosa risponderti perché non saprei più neanche chi sono io e che cosa ho imparato della vita”.


Centocelle

 

Anche Ad bestias, come altre mie storie, si svolge in un quartiere della periferia romana chiamato Centocelle. E come nelle altre storie, anche in questa la parola Centocelle non viene mai scritta, ma vengono disseminati qua e là indizi inequivocabili e citati, per esempio, i nomi di alcune sue strade. Perché Centocelle? Perché è lì che sono nato e cresciuto, e perché Centocelle (soprattutto quella degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, ma in parte anche l’altra, quella dei decenni successivi) è un luogo magico e una palestra di vita, una periferia avulsa e dimenticata e un “villaggio” fortemente identificato e orgoglioso della propria identità, tanto da assorbire e includere nel proprio tessuto culturale immigrati da ogni parte d’Italia e, in seguito, da ogni parte del mondo.

La casa di Michelino era all’ultimo piano di un palazzo che svettava, isolato come una torre di guardia, tra case semirurali e villette di periferia, alle estreme propaggini della città, in un quartiere che sfumava rapidamente in una campagna verde e odorosa di liquirizia.