La riunione
di Mario Corte

 

Il grande tavolo ovale riluceva alla luce del mattino che ormai inondava la sala. Silenzio. Passi ovattati fuori dalla porta. L’uomo attendeva. In quel momento il suo stomaco conosceva quel languore di chi ha fatto colazione molto presto e già alle nove e... - le nove e diciassette segnava il grande orologio elettrico, leggermente ronzante, in fondo alla sala - già alle nove e diciassette cominciava ad agitarsi un poco. Desiderò qualcosa di caldo e denso da bere e qualcosa di leggero da mangiare. Forse fuori in corridoio c’era una di quelle macchinette automatiche che gli erano subito piaciute tanto, quando le aveva toccate per la prima volta. Dove? In America, forse. Certo, in America ce n’erano a milioni, ma non era successo in America. Associava l’idea di quelle macchinette a qualcosa come un cappuccino. Proprio in Italia, allora? Non ne era sicuro. E poi, anche in America facevano il cappuccino. Ma in Italia era più buono. Gli pareva che in Italia tutti i sapori fossero più buoni. Dio, che fame aveva ora! Si ricordò di una cosa che aveva mangiato a Bologna e sentì lo stomaco brontolare in modo sonoro. Tortellini panna e ragù. Con parmigiano grattugiato fresco direttamente sul piatto con una grattugetta piccola, che sembrava un giocattolo. Che bella cosa vivere. Gli odori, i sapori, i colori, le sensazioni. I sentimenti. Povera gente, quella senza i sentimenti. Ne aveva conosciuta tanta, di gente senza sentimenti, in questo suo viaggio. Un po’ dovunque, ma a Roma soprattutto, dove si era trattenuto ingenuamente per tanti mesi, nella speranza di incontrare i migliori, i più esperti nella sua stessa arte, quelli che avrebbero dovuto manovrare con maestria le leve del cuore per lenire il dolore degli strappi dell’anima, per sciogliere il corpo dai lacci del male, per fare spazio all’Io che rammenta la propria origine divina, e ricacciare nelle tenebre le immonde creature che popolano le stanze della casa sacra, il corpo dell’uomo, rodendo croste di energia vitale. E per ringhiare come belve inferocite contro la signora delle illusioni, la grande divoratrice, la favorita di Satana: la Morte; e alitarle contro il nome del Figlio dell’Uomo e timbrarle il teschio ignobile con il fuoco della verità che gli uomini non le appartengono, perché è la vita a prestarli a lei, non lei alla vita.

Rumore di passi, voci che si avvicinano, che sostano oltre la porta chiusa. Una risata. La porta si apre. Entra il Presidente. Ispeziona la stanza con lo sguardo come se stesse cercando qualcuno tra molti. Ma nella stanza c’è solo l’uomo. L’uomo sorride un po’ esitante e saluta il Presidente con voce un po’ arrochita dal lungo silenzio meditativo. Il Presidente gli riserva uno sguardo radente, che non incontra lo sguardo dell’uomo; poi se ne va, richiudendo la porta. Non lo ha salutato. L’uomo soffre il dolore di un attimo di acuta umiliazione. Ne ricorda altre molto più acute. Ma non rinuncia a quel dolore. Vi resta inchiodato. Il Presidente non ha ritenuto necessario salutarlo. Il cuore dell’uomo ha una sola via d’uscita da quel dolore: perdonare il Presidente. Non può dargli del maleducato tra sé e sé, o dirgli tra i denti "Crepa". Lo perdona. Ma il suo perdono non è una formuletta morale né un dovere come lavare i piatti. Il perdono del cuore è una immensa responsabilità, perché ha una potenza devastante. Il suo perdono insegue il Presidente come un missile intelligente. Gli tiene dietro nel corridoio, lo tallona mentre si gira a guardare il profilo dei seni esigui ma proporzionati di una segretaria nuova, lo osserva mentre sosta per un attimo davanti al terminale dove scorrono le cifre della Borsa, e infine lo raggiunge nel bagno dove è andato a contorcersi senza ritegno tra gli spasmi che improvvisamente gli hanno ghermito il fegato, predicendogli una diarrea tormentosa. Quando gli si era annunciato quel dolore? Secoli prima, gli sembra, ma invece è stato quando ha evitato l’incontro con lo sguardo di quell’uomo, nella sala delle riunioni. Gli pare che dal suo intestino esca la vita stessa. Ora pensa di dover chiedere aiuto a qualcuno. Già si vede all’ospedale, preda di qualche dissenteria. "Le cose" (come lui chiama gli affari), i bollettini, le riunioni, la cena con il ministro, la sua amante diciannovenne che lo aspetta nell’appartamentino alle undici e mezza e che può concedergli solo un’ora perché la mattina ha lezione presto all’università. Sente la pressione sanguigna crollargli. Sta per svenire, lì da solo in quel cesso senza confini. Non sa a chi rivolgersi, né sulla terra né in cielo. Bestemmia piano Gesù Cristo. Le lacrime gli offuscano lo sguardo. Vede una gran luce, tra le lacrime. Piange a dirotto. Il dolore raggiunge una soglia senza ritorno, che si fa soglia visibile e oltre la quale il Presidente vede l’uomo seduto al tavolo delle riunioni; vorrebbe attirare la sua attenzione, ma l’uomo guarda da un’altra parte; allora lui arranca verso il tavolo, in mutande, sudicio delle sue produzioni intestinali e con i pantaloni calati che lo impacciano come catene; inciampa e cade, ed è come se le ginocchia gli si frantumassero sotto quell’urto; la testa, chiusa in una morsa di dolore lancinante, sembra sanguinargli, e invece è il suo sudore a colargli sulle tempie e sugli occhi; continua carponi a strisciare verso l’uomo, maledicendone l’ottusa distrazione; il fiato non si realizza in parole, ma il Presidente crede di parlare, anzi di urlare: "Maledetto, perché non mi aiuti? Brutta carogna, io ti chiamo e tu non ascolti! Certo: lui è troppo occupato per dedicarsi a me! Ma lo vedi come sono ridotto? Perché non hai pietà? Maledetto assassino! La verità è che tu non conosci la pietà! Lurido porco! Che ho fatto di male su questa terra per meritare questo?".
Il dolore cessa, torna per un attimo, ma è solo l’ombra della spada di prima. Poi cessa del tutto. La visione svanisce. Il Presidente si riprende. I pensieri cominciano a fluire nel modo consueto. Ora si tratta di rimettersi in ordine e di ristabilirsi completamente. Adesso è davanti allo specchio del bagno. Il colorito non è un gran che, ma il peggio è passato. Un bel tè, ci vuole: bollente, con tanto zucchero e tanto limone. Tutta la puzza di quel disastro resterà nel bagno, non lo seguirà e nessuno si accorgerà di nulla. Se si riprenderà come si deve, la giornata andrà benissimo, esattamente come era previsto che andasse. Sussurrando una bestemmia un po’ meno sanguigna delle solite, esce dal bagno. Anche oggi nessuno gli resisterà.

La porta della sala delle riunioni si aprì di nuovo. Entrarono sei persone. Un ragazzo e una ragazza, entrambi sotto i trent'anni, si diressero verso l’uomo seduto al tavolo, lo salutarono con cordialità e poi si sedettero accanto a lui, la ragazza a destra e il ragazzo a sinistra. Gli altri presero posto in modo apparentemente casuale attorno al grande tavolo ovale. Leggero imbarazzo generale. L’Amministratore Delegato sedeva a capo del tavolo, dalla parte opposta rispetto all’uomo. Accanto a lui, alla sua destra, c’era il Direttore Editoriale. Alla sua sinistra c’era un religioso molto anziano, magro e con un profilo rude e affilato che sembrava la punta di pietra di una lancia primitiva. Il Presidente non c’era. Non partecipava mai a riunioni che riteneva di scarsa importanza, come quella. L’Amministratore Delegato prese la parola:
"Dunque. Per prima cosa facciamo le presentazioni. Il signore davanti a me è l’autore del libro oggetto della riunione odierna; l’opera, che probabilmente voi tutti avete letto, è Il sentimento di Dio, una sorta di curioso mix tra un romanzo e un saggio, comunque non privo di originalità, di cui dobbiamo decidere il... destino editoriale. La signorina e il signore seduti accanto a lui sono i suoi... aiutanti... redattori... documentaristi... non so... dite anche voi...".
La ragazza intervenne: "Sì... Noi abbiamo fatto ricerche, coordinato le traduzioni in italiano di brani che l’autore ci aveva indicato e anche interviste, test psicologici su campioni di fasce culturali, più che altro per sondare l’adattabilità dei concetti alla realtà attuale; e poi tutte le revisioni e le correzioni; e le bibliografie, le note, gli indici...".
"Insomma tutto...", scherzò l’Amministratore Delegato. La ragazza arrossì un poco e assunse l’aria compunta della persona che, troppo modesta per vantarsi di un merito, è lieta tuttavia di essere stata scoperta nell’esercizio di una virtù superiore e rara.
"No..." , rispose quindi con timida dolcezza. "È tutto merito... suo...", aggiunse accennando con un gesto della mano all’uomo alla sua sinistra. "Noi abbiamo solo..."
"Ecco," la interruppe con gentilezza l’Amministratore Delegato, "tutto questo lavoro è stato necessario perché il libro è un lavoro colto, eccezionalmente informato e pieno zeppo di citazioni - tratte da opere letterarie, filosofiche, religiose – tradotte, se non sbaglio, da una decina di lingue attualmente parlate e da altrettante lingue morte... Prego, prosegua".
La ragazza guardò l’altro aiutante, sperando che stavolta parlasse lui, poi, mentre l’altro stava infine per aprire la bocca, parve attraversata da un’idea improvvisa e riprese a parlare lei:
"Le traduzioni da lingue moderne sono diciannove. E quelle da lingue morte dodici. È stato un lavoro estremamente interessante, specialmente per una laureata in lettere antiche come me. Mi ha dato l’opportunità di approfondire cognizioni storiche, storico-religiose e filologiche di cui avevo già buone nozioni, ma che ora si sono consolidate al punto che non mi sarebbe difficile curare, che so io, una collana specialistica, voglio dire, anche per pubblicazioni diverse... Cioè..."; resasi conto che stava facendo una gaffe con l’autore, si interruppe, poi concluse con un sorriso un po’ intimidito ma ugualmente raggiante: "Ma adesso parliamo di questo libro". E tacque, arrossendo soavemente.
L’Amministratore Delegato le riservò uno sguardo in cui un occhio manifestava il fastidio per il fatto che la ragazza voleva mettersi troppo in luce personalmente e l’altro l’attesa che continuasse a farlo per poter stabilire meglio di che razza fosse. Si rivolse poi al ragazzo seduto accanto all’uomo.
"E lei, di che cosa si è occupato esattamente?"
Il ragazzo tacque per qualche istante come per riordinare le idee, poi, per darsi coraggio, fece schioccare rumorosamente le articolazioni delle mani, facendo echeggiare la sala con un suono di schianto d’ossa da camera di tortura. "Io mi sono occupato soprattutto di coordinare le traduzioni dalle lingue moderne e di intervistare alcuni personaggi del mondo della cultura, dello spettacolo, della politica, chiedendo pareri sul... tema centrale dell’opera."
"Cioè il cosiddetto ‘sentimento di Dio’", suggerì l’Amministratore Delegato con una punta di ironia. Il giovane abbassò lo sguardo, come se quel leggero accento ironico fosse andato direttamente a toccare le corde di un istinto segreto, capace di interpretare persino i sospiri di un potente; un istinto che per tutto il tempo in cui aveva lavorato per l’uomo che ora gli era accanto era rimasto sopito, soffocato com’era dalla gioia dell’occasione che l’autore gli aveva dato e dall’onore di poter giocare al gioco della cultura con quell’uomo buono e saggio.
"Sì, il... sentimento di Dio."
"Bene, è tutto?"
I due aiutanti si guardarono ridacchiando timidamente e dandosi a vicenda la precedenza. Stavolta partì per primo il ragazzo.
"Come accennava la collega, io e lei, insieme, abbiamo curato ovviamente tutta la parte redazionale di revisione, note..."
"... Bibliografie", riprese la ragazza, "e... indici. Ci siamo fatti proprio, come si dice, le ossa." Tacque di nuovo, con un’aria soddisfatta.
Poi entrambi si resero conto di essere stati un po’ laconici sul ruolo dell’autore, e aggiunsero, quasi accavallandosi: "Un bel lavoro... Lavorare con lui è proprio... un..."
"... Un bel lavoro", concluse l’Amministratore Delegato con malizia. "Bene, qui abbiamo Monsignor Licandri, che in questa circostanza ci farà da consulente; credo che avrà molte cose da chiedere all’autore. Il Monsignore, come sappiamo, è il fratello maggiore del Presidente e uno dei soci fondatori dell’azienda. Con lui abbiamo discusso molto - soprattutto a tavola, davanti a certi vinelli isolani che lui ci ha insegnato ad apprezzare - della possibilità di strutturare una collana dedicata agli apporti originali di nuovi pensatori di ispirazione cristiana al pensiero religioso di inizio millennio. Ecco, dunque, lascio a lui la parola."
"La presentazione dell’amico Alvise mi relega al ruolo di avvinazzato." Risate generali. "Tuttavia, sono anche un uomo di chiesa, ve lo assicuro." Uno schiaffetto affettuoso del prelato sulla mano dell’Amministratore Delegato bastò a far scattare nell’assemblea un calore nuovo, che ebbe il potere di distendere definitivamente l’atmosfera anche per i due giovani collaboratori dell’uomo, e di far brillare di genuina fiducia e di aperta confidenza soprattutto gli occhi della collaboratrice, che rise più forte degli altri e ora si sentì per un momento a casa sua.
Fissando lo sguardo, improvvisamente serio, negli occhi dell’uomo, il Monsignore, infine, parlò: "Vorrei sapere dall’autore: come definirebbe esattamente questo ‘sentimento di Dio’? Una percezione di Dio da parte dell’uomo attraverso l’emotività?".
L’uomo inarcò leggermente le sopracciglia e poi, con una voce ferma e serena, diede alla sua battuta la qualità che avrebbe saputo darle un attore di esperienza e talento: "Lei ha letto il libro?".
"Uh. No", confessò il prelato senza alcuna resistenza, come se, di fronte alla richiesta di un agente della polizia stradale, si fosse ricordato improvvisamente di aver lasciato a casa la patente.
L’uomo si rivolse alla sala, lasciando lentamente che il suo sguardo si posasse negli occhi di tutti. L’Amministratore Delegato, che era una vecchia volpe, comprese che, per restituire professionalità alla riunione, sarebbe stato necessario chiarire il grado di conoscenza del libro da parte degli astanti, e disse: "Io, personalmente, non l’ho letto, ma il Direttore Editoriale mi ha riferito di averne ricevuto l’impressione di un lavoro... imponente".
Il Direttore Editoriale annuì, poi fece sporgere il labbro inferiore e corrugò la fronte con un’aria prima un po’ ironica, poi come di seria riflessione, e disse: "Imponente, sì".
L’Amministratore Delegato guardò poi l’altra persona seduta al tavolo. "La Dottoressa Schwacher curerà la collana che stiamo progettando e nella quale potrebbe inserirsi quest’opera. Lei è senz’altro la persona più adatta a parlarcene."
La Dottoressa Schwacher, che voleva evitare di esporsi sulla sua reale conoscenza dei contenuti del libro, sorrise in modo eccessivo, poi invece la sua espressione divenne troppo seria e grave. Infine disse: "Non so. Secondo me quello che viene fuori è che il libro è un po’ troppo intriso di atmosfere New Age. L’energia, per esempio. Un argomento tipicamente New Age. Mi pare perfino che si parli dello Spirito Santo in termini di energia. E questo, francamente, per un pubblico di estrazione cattolica...".
"Il vostro è un pubblico di estrazione cattolica?", chiese l’uomo con curiosità.
"Oh, no. Niente affatto. Cioè, non solo. Direi che una delle nostre caratteristiche è proprio la - come dire - la trasversalità della nostra produzione, sia in saggistica che in letteratura. Pensi che abbiamo persino una collana di giovani scrittori crucifix e quartering."
"La letteratura crucifix non la conosco ma posso immaginare di che cosa tratti, ma quella quartering?", chiese l’uomo sorridendo.
"Quartering. Nel senso di "squartare"", rispose la donna ridendo. "Sa, concetti come pulp, splatter eccetera sono superati da tempo, e allora..."
"... E allora via: squartamento libero", disse l’uomo con un’autorità che gelò la sala. "E il pubblico di estrazione cattolica che dice?", aggiunse.
L’espressione della donna si fece asciutta. "Lei probabilmente si scandalizza di certe cose e io di altre. Il concetto di disgusto non è lo stesso per tutti. E non escludo che anche un pubblico cattolico possa accostarsi a certe tendenze, magari per tenersi informato."
"Lei ha letto il mio libro?"
"No, proprio letto no, l’ho scorso qua e là", rispose la Dottoressa Schwacher senza più nascondere il fastidio che quell’uomo le procurava.
L’Amministratore Delegato vedeva il terreno franare rapidamente. Era colpa dell’atteggiamento temerario dell’autore, ovviamente, ma non voleva condividere in alcun modo con lui la responsabilità del fallimento della riunione, e allora tentò la manovra di allentare la tensione ricorrendo alla forza evocatrice di uno dei motti aziendali:
"Il nostro Presidente non è un editore cattolico. È un cattolico che fa l’editore."
Per quanta buona volontà ci mettesse, l’uditorio non poté reagire in alcun modo alla battuta, che finì per cadere nel vuoto assoluto. Il Direttore Editoriale, allora, soccorse l’Amministratore Delegato, che era rimasto lievemente scioccato dall’infelicità della sua stessa battuta, prendendosi lui la responsabilità di andare avanti:
"Ecco, io credo che dovremmo sentire il parere di Roberto. Ecco, sì, mi pare proprio il caso. Lo chiamo". Alzò il telefono che era sul tavolo e fece un numero. "Bruna? Ciao, cara. C’è Roberto da quelle parti? No. Ah, va bene. Ah, va bene. Ah. Va bene. No-no-no-no-no. Non fa niente. Va bene." Poi, rivolto all’uditorio, rivelò che Roberto era impegnato in una traduzione simultanea con il Presidente, che riceveva la visita di un editore tedesco.
"Chi è Roberto?", chiese l’autore. La Dottoressa Schwacher fece una faccia indignata e scosse la testa in modo ben visibile, lanciando un’occhiata verso l’Amministratore Delegato, il quale a sua volta guardò l’uomo con aria seccata, come se da un momento all’altro volesse invitarlo a farsi gli affari suoi. Il Direttore Editoriale, invece, tese una mano verso l’Amministratore Delegato e una verso la Dottoressa Schwacher per invitarli delicatamente a non intervenire, e poi riprese la parola:
"Roberto è il nostro aiutante di redazione. Un piccolo genio. Anche noi, qui, abbiamo i nostri piccoli mostri; mai come i suoi meravigliosi aiutanti, però", aggiunse sfuggendo lo sguardo dell’uomo e con un tono che voleva essere scherzoso ma che riuscì a essere solo acido. Gli aiutanti ridacchiarono nervosamente.
"Lei ha letto il mio libro?", chiese l’uomo al Direttore Editoriale.
"Una lettura molto superficiale. Tuttavia..."
In quel momento qualcuno bussò alla porta. Entrò un giovane in jeans e con un maglione un po’ frusto.
"E tu che ci fai qui?", gli chiese il Direttore Editoriale. "Hai il dono dell’ubiquità? Allora siamo pienamente in argomento", scherzò. Poi, rivolto ai presenti: "Questo è Roberto. Ora ci spiegherà il trucco che gli permette di essere contemporaneamente qui e con il Presidente".
"Bruna ha avvertito il Presidente e lui, appena ha saputo che si trattava di questa riunione, mi ha praticamente messo fuori dalla porta."
All’Amministratore Delegato la cosa parve strana. Il Presidente non capiva nulla di quegli argomenti e guardava con fastidio tanto alla prospettiva di creare una collana di cultura religiosa quanto a quella di aprire un filone di New Age.
"Beh, avanti, siediti", disse il Direttore Editoriale. "Si parlava di quel libro che ti avevo chiesto di... che ti avevo consigliato di leggere."
"Il sentimento di Dio."
"Il sentimento di Dio. Roberto, anche se è un genio, va un po’ a rilento con gli esami. Ancora si deve laureare. Ma sa praticamente tutto di tutto. Sentiamolo."
"Scusi, Roberto," intervenne l’autore. "Lei è laureando in...?"
"Storia delle religioni."
"Oh. Storia delle religioni", ripeté l’autore. "E lei il libro lo ha letto?"
"Io il libro l’ho letto. Non tutto, lo confesso, ma quello che ho letto l’ho letto con attenzione; ma devo dire che non ho capito molto delle intenzioni dell’autore. Mi ha colpito sostanzialmente per la grande profusione di documenti citati e per la profonda religiosità di alcuni passi. Ma, se devo essere proprio sincero, è molto lontano dall’avermi impressionato. L’idea del ritorno di Gesù Cristo in un’epoca di grave crisi religiosa come la nostra è suggestiva, indubbiamente. Ma - l’autore mi scuserà - non è sorretta da un’ispirazione all’altezza della premessa. E invece si cerca di sostenerla con una certa dose di pedanteria esegetica e attraverso l’eccessiva utilizzazione dei documenti, che di per sé sarebbero interessanti (alcuni sono vere fiabe nella fiaba), ma che nel contesto della narrazione sembrano messi apposta per confortare una tesi; sono usati un po’ come venivano usate certe profezie: piegando ad esse la realtà storica o la cronaca di certi eventi. Per servire la causa di profeti, messia, Unti del Signore, figli di Dio, eccetera, insomma."
"Insomma il vero problema è che il mio libro non è piaciuto a Roberto", disse l’autore rivolgendosi all’Amministratore Delegato.
"Non la metterei su questo piano, se fossi in lei. E poi in una riunione come questa dovrebbe essere lei a tentare di convincere noi, non noi a dover dimostrare di avere assimilato i suoi... concetti. Mi scusi, ma mi pare che proprio non ci siamo."
La Dottoressa Schwacher sembrava sul punto di applaudire, ma si limitò ad allargare leggermente le braccia mormorando tra sé: "Oohh! Quando ci vuole ci vuole!".
Seguì un silenzio lungo e pesante. L’autore volse lo sguardo verso la sua aiutante. Era addolorata come se fosse stata bocciata ad un esame. Stava lì lì per piangere. Guardava il tavolo e tentava di evitare in ogni modo lo sguardo dell’uomo. Lui insisteva a cercare i suoi occhi. Infine, con un gesto che a tutti parve di eccessiva confidenza, le sollevò delicatamente il viso dal mento, per guardarla meglio. Lei fece una smorfia tormentosa e poi, cominciando a piangere a dirotto, si alzò e fuggì quasi correndo verso la porta. Quando la ragazza la ebbe chiusa dietro di sé, lo sguardo dell’uomo si posò sul ragazzo. Quello lo guardava con occhi spiritati e con la bocca distorta da una smorfia che la faceva somigliare a un cuoricino. Sembrava che stesse per mandarlo a quel paese da un momento all’altro. L’autore gli chiese dolcemente: "Vuoi andartene anche tu?". L’altro continuò a fissarlo in silenzio con una faccia intrepida, come se volesse sfidarlo.
"Dove andremo? Solo tu hai parole di verità!", intervenne Roberto, con l’intento di sdrammatizzare scherzando. Il Direttore Editoriale e l’Amministratore Delegato lo fulminarono contemporaneamente con lo sguardo. Si era allargato un po’ troppo, e il Direttore Editoriale lo congedò con freddezza: "Vai, Roberto, per favore. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento sono le tue battute di spirito".
"Scusate", ebbe il tempo di dire mentre si alzava dalla sua poltrona, poi serrò stranamente i denti, il suo viso diventò grigiastro, mandò una specie di rantolo e ricadde pesantemente a sedere, andando a sbattere la testa contro il tavolo. Era crollato come una marionetta sfuggita al burattinaio. Si alzarono un po’ tutti per soccorrerlo. Gli tiravano la testa all’indietro, lo chiamavano a voce alta, tentavano di tirargli su i piedi, lo schiaffeggiavano. Alla fine lo sdraiarono in terra. Sembrava che non respirasse. A un certo punto l’Amministratore Delegato, che era uscito per chiamare aiuto, rientrò annunciando con voce bassa e calma che stava arrivando l’ambulanza. Ecco. Ora si era fatto tutto il possibile. Solo allora tutti si resero conto che l’autore non si era mai mosso dal suo posto. Sembrava che stesse prendendo degli appunti su una agenda. Poi alzò lo sguardo e tutti pensarono, contemporaneamente e in modo del tutto incongruo, di essersi sbagliati riguardo all’identità del giovane colpito dallo svenimento: a sentirsi male era stato sicuramente l’aiutante dell’autore, non Roberto. Sulla faccia dell’autore, infatti, era dipinto un dolore come di qualcuno che sta perdendo un fratello. I pensieri dei presenti vagarono alla ricerca di relazioni tra l’autore e il malato: l’aiutante era in realtà il fratello dell’uomo; anche la ragazza, probabilmente, era sua sorella: ecco il perché di quel gesto troppo confidenziale, che prima avevano interpretato come prova di qualche rapporto intimo. I pensieri rotolarono liberi in quella assurda direzione, giungendo alla conclusione che il fastidio che i due giovani provavano per il comportamento dell’uomo era dovuto al fatto che, probabilmente, lui neanche li pagava: li faceva lavorare gratis perché erano i suoi fratelli. Il furbo. Si era compreso subito che era un gran furbo. Con quell’aria da profeta in cravatta a caccia di contratti editoriali, e di quelli grossi. Meno male che loro non c’erano cascati. Nessuno di loro. E poi, era tutto da vedere se veramente erano tutti fratelli. Se lui avesse avuto qualche specie di rapporto sordido con entrambi, mica sarebbe stata la prima volta sulla terra. Guardalo lì, che faccia da ipocrita. Troppo pulita per essere vera, quella faccia. E quella sfrontata autorità con cui parla alla gente: ma chi si crede di essere? Ma chi lo conosce, quello lì!
"Eccolo lì. Rocco e i suoi fratelli", disse infine la Dottoressa Schwacher. "E faccia qualcosa anche lei, no!" La battuta, assurda se non altro perché tardiva, ebbe il potere di riportare tutti alla realtà. A star male era proprio Roberto. Era lì, sotto i loro occhi. Non compresero come potessero aver commesso quel folle errore percettivo. Roberto lo vedevano tutti i giorni. Come potevano averlo scambiato per il fratello dell’autore? E poi, quel ragazzo, il suo aiutante, era davvero suo fratello? Erano diventati tutti pazzi?
L’autore aveva sempre dipinta in faccia quell’espressione di dolore; sembrava anche preda di una leggera crisi respiratoria. Guardò il soffitto per un attimo, quindi serrò le labbra e strinse i denti, assumendo di colpo un’espressione fiera e decisa, come di qualcuno che si prepari a combattere. Si alzò e andò verso Roberto, che giaceva sempre supino in terra, abbandonato come il cadavere di un soldato caduto in battaglia. Si inginocchiò accanto a lui e gli prese la testa tra le mani, quasi abbracciandola. Gli accarezzò il viso come una madre accarezzerebbe un figlio febbricitante. Gli sussurrò qualcosa in un orecchio. L’imbarazzo dei presenti montò come una marea. Che diavolo stava facendo quell’uomo con quel povero ragazzo svenuto? I suoi movimenti apparvero loro come manovre poco pulite. L’allarme saliva. Era il colmo: ora lo stava persino baciando su una tempia! Il Monsignore, la Dottoressa Schwacher e il Direttore Editoriale guardarono indignati l’Amministratore Delegato, come se a lui spettasse il compito societario di porre fine ai comportamenti indecenti di quell’uomo.
In quel momento squillò il telefono. L’Amministratore Delegato rispose al Presidente, che era preoccupato per le conseguenze che quell’incidente poteva avere. Roberto lavorava lì praticamente gratis e senza alcun contratto. Era figlio di una ex dipendente dell’azienda che anni prima aveva persino denunciato l’amministrazione per certe presunte frodi previdenziali a suoi danni; poi la cosa si era sistemata, nessuno sapeva esattamente come, e tempo dopo il Presidente aveva segnalato alla redazione un ragazzo bravo e intelligente, non laureato ma pieno di voglia di fare, e soprattutto disposto a lavorare in cambio di un paio di libri al mese, un biglietto aereo per le vacanze e piccoli rimborsi irregolari, rigorosamente in contanti. L’Amministratore Delegato si accordò con il Presidente sulla versione da dare ai medici e, nel caso malaugurato che si trattasse di una cosa molto grave, alla polizia: il giovane, figlio di un’amica di famiglia del Presidente, si trovava lì per caso, perché voleva conoscere l’autore di un libro che aveva letto. Si trattava di suggerire la stessa versione a tutti i dipendenti, ma le possibilità che essi venissero interrogati erano scarse. La parola del Presidente e dell’Amministratore Delegato sarebbe sicuramente bastata. Sempre sperando che le cose non si mettessero troppo male per il ragazzo.
Quando l’Amministratore Delegato riattaccò il telefono e si girò verso la scena che aveva lasciato un paio di minuti prima, restò folgorato dalla vista di Roberto seduto tranquillamente al suo posto. Sotto, si sentiva la sirena dell’ambulanza che spegneva il suo urlo nel cortile del palazzo. Voci concitate, spezzoni di frasi lontane: "Terzo piano... Ascensore... Barella... Scala di servizio...".
"Che è... successo?"
"Sta bene", rispose il Direttore Editoriale. "Appena ha sentito squillare il telefono ha aperto gli occhi e si è subito rimesso in piedi."
"Il morbo comiziale", disse Roberto con una voce solo un po’ più velata del solito. "Una volta o l’altra ci rimarrò secco. Scusatemi. Tanto per restare in tema, ora avete scoperto tutti che dentro ho un’intera Legione."
"Ma... Tu sei..."
"Epilettico, se vogliamo dire così", rispose Roberto all’Amministratore Delegato, che indietreggiò istintivamente di qualche centimetro.
"E gli attacchi ti passano così?"
"No. E’ la prima volta che un attacco mi passa così."

Roberto fu comunque affidato ai medici, se non altro per giustificare la chiamata d’emergenza. La riunione rimase sospesa a lungo, per permettere ai partecipanti di riprendersi dallo shock. Poiché si era fatta ora di pranzo, l’Amministratore Delegato, scusandosi, disse di avere appuntamento con il Presidente al ristorante dove questi pranzava ogni giorno, e dove oggi aveva invitato il suo ospite tedesco. La Dottoressa Schwacher si mostrò immediatamente infastidita di fronte alla prospettiva di pranzare con l’autore e fece per avviarsi da sola a pranzo, ma fu fermata dagli aiutanti dell’autore, che le chiesero se potevano farle compagnia. L’autore si ritrovò con il Monsignore e con il Direttore Editoriale, che fu costretto a invitarlo. Insieme si diressero a un ristorantino molto piccolo e abbastanza modesto, ma dove sembrava che si mangiasse molto bene. Davanti a certi cannelloni fatti in casa e serviti in terrine arroventate e sfrigolanti, il Direttore Editoriale cominciò a parlare:
"Vede... non so bene da dove cominciare... Ecco, forse è meglio che le spieghi: la sostanza è che io dirigo la casa editrice, ma le decisioni più... concrete le prende l’Amministratore Delegato. È lui a decidere le produzioni; e i budget per le produzioni, naturalmente. E badi: non è un amministrativo, è un uomo di cultura, veramente l’uomo giusto al posto giusto. Il fatto è che lei... insomma che lui era molto ben disposto verso la sua proposta editoriale, ma ho l’impressione che qualcosa lo abbia turbato. Un po’ è stato l’atteggiamento dei suoi aiutanti, quella scena della ragazza ... e anche il ragazzo... insomma voi tre non date proprio l’impressione di un gruppo affiatato, ecco. E una produzione è una produzione: se il lavoro è venuto fuori in quella situazione di... disaccordo, si può immaginare che ci sia stata una certa confusione. E poi, ecco, lei... Non mi pare che l’Amministratore Delegato sia rimasto ben impressionato da lei. Senza offesa. Però l’impressione che si dà al primo incontro, come lei sa, è quella che conta. E lui va un po’ a istinto. Ed è giusto. Un autore non è solo uno che scrive libri. È qualcuno che innanzitutto deve avere un buon rapporto con l’Editore. E presentarsi bene al pubblico. Lei ci si vede in una trasmissione televisiva a parlare del suo libro? Ci si vede in un talk show a interrompere il conduttore per chiedergli se ha letto il libro oppure no, mentre attorno a lei imperversano comici, cantanti e attricette? Ci si vede a interrogare presentatori e giornalisti sul loro grado di preparazione riguardo al suo volume in rubriche di libri dove la regia le ha riservato due minuti, o nello spazio cultura del telegiornale dove gliene hanno concesso uno? E poi, last but not least, mi scusi la franchezza - tanto siamo tra uomini e il Monsignore è un uomo di mondo non meno di me - quella specie di "curetta" che ha fatto al ragazzo svenuto proprio non è piaciuta a nessuno. Io non ho capito che cosa volesse fare, ma aveva tutta l’aria di una performance gay, anche un po’ ripugnante. Ormai non ci si scandalizza più di niente, ma francamente mi pare che lei abbia un po’ esagerato. L’Amministratore Delegato era disgustato. E visto che, come le dicevo poc’anzi, uno scrittore è qualcuno che innanzitutto deve avere un buon rapporto con l’Editore, mi pare che lei abbia giocato nella maniera peggiore tutte le sue carte. Sono stato troppo brusco? Troppo diretto? Me lo dica sinceramente, se si è offeso". E intanto guardò il Monsignore, che continuava a tacere con un’aria solenne e un po’ enigmatica, masticando lentamente ogni boccone e sorseggiando frequentemente un vino rosso, chiaro e brillante.
L’uomo abbassò lo sguardo e si mise a mangiare in silenzio, molto lentamente anche lui. Quando ebbe finito, alzò lo sguardo e lo lasciò scorrere oltre la vetrata che dava sulla strada. Sembrava che i suoi occhi guardassero nella profondità di distanze abissali. Era uno sguardo triste, specchio di un dolore che evidentemente era molto profondo. Il Direttore Editoriale ne fu soddisfatto. Quello che ci voleva per quell’uomo era proprio qualcuno che si prendesse la briga di piegarlo, ed era contento di averlo fatto proprio lui. Ora, magari, ci si sarebbe messi anche d’accordo, e in modo più vantaggioso che mai. Sempre che l’Amministratore Delegato non fosse rimasto veramente troppo irritato dai suoi atteggiamenti. Ma, se lo conosceva bene, la cosa era assai improbabile. Il suo superiore, infatti, si vantava sempre di avere una mentalità "laica" in materia di coerenza morale, ritenendo che non credere in nulla ("non credo neanche nel pan cotto", era il suo motto di battaglia) fosse una ineguagliabile qualità professionale. Ma nell’opera di quell’autore c’era qualcosa che valesse un impegno produttivo comunque cospicuo? Su quell’aspetto il Direttore Editoriale aveva idee molto nebulose. Non aveva letto il libro e neanche aveva intenzione di leggerlo, ma la lettura di Roberto gli aveva già fornito qualche elemento prezioso. L’unica risorsa che vedeva per lavori come quello era un bel rimaneggiamento in chiave New Age, naturalmente con l’apporto sostanziale di qualche autore smaliziato, magari straniero, magari un po’ meno anonimo di... quello lì. Il materiale era buono, questo si capiva. Enorme. Rigoroso. Già selezionato. E già bello e tradotto, per lo più da lingue che per la sola traduzione avrebbero richiesto collaborazioni salatissime. E invece era tutto lì. L’ostacolo più grosso per cominciare a lavorarci era proprio la presenza, o meglio, l’esistenza dell’autore. E poi c’era da chiarire se questo concetto del "sentimento di Dio" potesse davvero funzionare. L’idea del ritorno di Gesù Cristo era simpatica, ma se il messaggio di questa specie di "Cristo II: la vendetta" non era abbastanza originale, l’idea diventava una bufala. Le novità rispetto alla solita minestra riscaldata dei Vangeli dovevano essere sostanziose e saporite. Buone per un pubblico divoratore di concetti accessibili e pepati alla Redfield, conditi di mistero al punto giusto e senza troppe complicazioni intellettuali, intuizioni spirituali e speculazioni teologiche. Quella, insomma, era roba che, gestita in modo accorto, avrebbe potuto fornire materia prima per qualcosa come sei-otto libri, o libretti, diversi. Ma c’era da lavorarci. Chissà che tipi erano i due aiutanti. La ragazza era un misto tra una buona suorina e una che, ammaliata dal miraggio di sfondare nella cultura, sarebbe stata capace di vendere la sorella minore a un pappone albanese. Il ragazzo sembrava un po’ un babbaleo, invece. Un Roberto meno sveglio e con meno birra dentro. Ma il modo in cui aveva guardato l’autore indicava chiaramente che di lui non gliene fregava niente. Magari sarebbero tornati utili indipendentemente da quell’uomo. Anche perché ormai, dopo lo sturbo, su Roberto ci si poteva anche fare la croce. Figurarsi il Presidente che si rimette in casa l’epilettico! Ammesso che di quel libro se ne volesse fare qualcosa, quei due potevano davvero servire. Sembravano tutt’altro che devoti, anzi dovevano proprio averne a sazietà, dell’autore. Chissà com’era, poi, lui, veramente? Ma questa era stranamente la cosa che gli interessava di meno.
D’un tratto, uno stridìo di freni in strada, seguìto da un gran botto, gelò il sangue a tutti. Dopo un paio di secondi di silenzio, si udì un lugubre ululato di agonia e si comprese che la vittima dell’investimento era un cane. L’autore si alzò e andò diretto verso l’uscita. "Non c’era bisogno di fare così, il conto l’avrei comunque pagato io", scherzò il Direttore Editoriale con il Monsignore, il quale rimase serio e meditabondo come era stato durante tutto il pranzo. Guardò fisso negli occhi il suo interlocutore e poi, con una strana ansia in volto, si mise ad allungare un po’ il collo per vedere che cosa accadeva fuori.
La scena era tremenda. Un’auto aveva investito il cane di un cieco, e ora il povero animale era a terra agonizzante, e urlava e ruotava penosamente su se stesso facendo perno sull’unica zampa che gli era rimasta sana. Il resto del corpo era una massa disarticolata di ossa che quell’allucinante movimento meccanico contribuiva solo a slogare e spezzare ulteriormente, devastandogli gli organi interni e provocandogli un’emorragia dalla bocca che disegnava sull’asfalto un bizzarro cerchio di sangue. Il cieco era seduto in terra molti metri più in là, probabilmente dove il cane era stato colpito e sbalzato via. Sembrava solo contuso e in preda a un forte shock. Chiamava il cane: Trim. Qualcuno tentava di soccorrerlo, in attesa dell’ambulanza e di una pattuglia della polizia che probabilmente avrebbe abbattuto il cane con un colpo di pistola, per non farlo soffrire più. L’uomo si avvicinò al cieco, lo abbracciò dolcemente e gli chiese:
"Che vuoi?".
"Voglio Trim", e si mise a piangere a dirotto.
"Quanto ci vedi?"
"Il 10 per cento. Ma non me ne frega niente. Non ci voglio vedere di più. Sto bene dove sto, al buio. È meglio questo buio che la luce perpetua del fornetto famigliare con dentro mia moglie e i miei bambini, al cimitero. Voglio Trim! Trim! Triiiiiim!", urlò di disperazione, e dalla gola gli uscì un grido che sembrò entrare bizzarramente in armonia con quello del cane.
"Trim! Qui", disse l’uomo a voce alta.
Ora il cane era lì vicino al cieco e all’uomo. Con un’aria interdetta guardava questo nuovo amico del padrone. Si passava in continuazione la lunga lingua sui labbroni per ripulirsi del sangue che ancora gli bagnava tutto il muso. Decise di proseguire una delle sue lunghe leccate sulla faccia dell’uomo, che di rimando gli accarezzò il testone. Il cane approfittò della posizione accucciata dell’uomo per prodursi in una posa adorante, con le zampe anteriori sulle spalle della sua giacca e quelle posteriori appiattite a ciabatta sotto il corpo seduto. Gli allungò ancora un paio di leccate e poi si dedicò al suo padrone, girandogli attorno scodinzolante e tentando con il muso di aiutarlo ad alzarsi.
L’uomo si allontanò, mentre il cieco ancora lo inseguiva con una domanda che aveva cominciato a porgli non appena aveva sentito l’odore del cane e il calore del suo fiato accanto a sé: "Che è successo? Eh, che è successo? Oh, dico a te, che è successo?".

Il pranzo dei due aiutanti con la Dottoressa Schwacher fu rasserenante e fruttuoso. Lei li aveva portati in un posticino un po’ caro ma deliziosamente alternativo, dove servivano solo leggere insalate molto creative, porzioni puramente simboliche di variegati soufflé e sottili fettine di torta, per lo più alla frutta. Si potevano bere bevande non comuni come sidro o rosolio e correvano voci che, a richiesta e un po’ in segreto, si concedessero assaggi d’assenzio. I due giovani, inizialmente molto intimiditi, erano stati presto messi a proprio agio dalla Dottoressa Schwacher, che in capo a una ventina di minuti era riuscita ad ottenere la loro confidenza, gettando le premesse di una di quelle particolari amicizie che cominciano con la complicità e proseguono con la condivisione di qualche inganno.
La ragazza fu presto estasiata dall’orizzonte che le apriva la conoscenza di quella donna: una persona di cultura (vicedirettrice editoriale e curatrice di collana!) che però aveva una visione pratica e pragmatica della sua professione e delle cose della vita. Una persona, finalmente, che sapeva quello che voleva. I rapporti della ragazza con l’autore, ormai, erano definitivamente sfasciati. Il modo fallimentare in cui lui aveva gestito quella riunione era stato un colpo insopportabile per la ragazza. Lei aveva puntato tutto sulla possibilità di pubblicare finalmente quell’opera, che le era costata non solo un grande investimento in termini d’impegno e di fatica, ma anche d’amore. Aveva amato quel lavoro e in qualche modo aveva amato anche quell’uomo che glielo aveva proposto, insegnandole tante cose. Ma non aveva tardato a rendersi conto che quell’uomo non aveva mai amato lei, né il suo collega né, forse, lo stesso lavoro, perché quell’uomo non aveva occhi che per le sue strane idee spirituali. Era un personaggio di un’ambizione folle e di un’ingenuità ridicola, di un’astuzia diabolica e di una generosità esaltata, di un’intelligenza astratta inarrivabile e di una inconcludenza pratica desolante. Una contraddizione vivente. Amarlo significava ritrovarsi a precipitare con una pietra appesa al collo nell’abisso di un paradosso senza fondo. Aveva bisogno di pace, ora. Era bello stare lì. Con accanto quella donna che reagiva alle sue parole senza né passione né pensieri nascosti, che parlava delle cose di questo mondo con stile e semplicità, senza rapimento né ripugnanza, che sapeva farsi largo nella vita riservando alla vita sentimenti misurati e discreti, che impegnava lo spazio con movimenti delicati, un po’ trattenuti, compiaciuti soltanto della loro perfetta sobrietà. Un’intellettuale che sapeva bene come stare al mondo. C’erano volute le assurdità dell’autore per farle perdere la pazienza, durante la riunione. E poi non è che l’avesse proprio persa, aveva solo manifestato una comprensibile esasperazione, e in un modo peraltro molto civile. Sì: una persona che sapeva proprio quello che voleva. E un modello a cui ispirarsi, finalmente, con serenità.
Il ragazzo, invece, non era in cerca di modelli a cui ispirarsi. Non era più in cerca di nulla. Lui era rimasto deluso ancora più profondamente della ragazza dal modo di essere di quell’uomo, dalla sua irresolutezza, dal suo approccio rinunciatario al successo, dalla sua accettazione passiva degli eventi, dal suo eccessivo moralismo. Tutti difetti ai quali facevano da contraltare le appassionate argomentazioni spirituali che si aggrovigliavano in se stesse, l’ardore esagerato nella difesa di punti di vista senza alcuno sbocco pratico, le improvvise esplosioni di sdegno contro comportamenti che lui definiva ipocriti, ma che spesso erano solo improntati a una visione della realtà un po’ meno campata in aria - e un po’ più utilitaristica - della sua. E poi, quella continua esaltazione dell’umiltà e l’altrettanto perenne denigrazione del potere! Un vero linciaggio, altro che denigrazione, contro chiunque avesse il solo difetto di gestire un qualche potere, grande o piccolo che fosse. Come se lui, poi, potesse farne a meno, del potere. Non stava forse facendo la corte ai potenti proprio adesso, per farsi pubblicare il suo libro? E il Presidente di quella società non era un fior fiore di potente? Eppure lui era lì, in giacca e cravatta, ad accattare un po’ d’attenzione per la sua opera. Il guaio era che lo faceva pure male, usando la spocchia quando ci voleva l’umiltà e l’umiltà quando invece avrebbe dovuto osare. I potenti non calano mai le braghe di fronte alla spocchia. E invece le calano quando qualcuno ci sa fare, e sa piazzare i colpi al momento giusto, sapendo tacere quando loro parlano e rispondendo quando è interrogato, e spiegando chiaro e tondo quello che vuole ottenere. E quanto vuole, soprattutto. L’autore non aveva saputo gestire niente di quella riunione, che per lui e la sua collega significava tutto e che ora si ritorceva contro di loro, condannandoli ad altri anni di anonimato e di attese. Né lui né la sua collega ne potevano più del solito repertorio che l’autore si ostinava a mettere in scena: i silenzi carichi di significati, le battutine moralistiche, gli sguardi intensi, gli occhi rivolti al cielo e i bacetti al primo scemo che si sentiva male (e, guarda caso, ce n’era sempre uno, dovunque lui andasse, tanto che cominciavano a pensare che portasse pure iella). E non è che gli venisse in mente di cambiare repertorio: no, per carità. Insisteva, insisteva e insisteva, senza mai ottenere un solo risultato concreto, come per esempio cominciare a far soldi. Basta. Era arrivato il momento di gestire le cose diversamente, pensando anche a se stessi. E al futuro.

La faccia del Monsignore era un po’ cambiata. Se ne accorsero tutti. Sembrava invecchiato. "Tutto bene?", gli chiese l’Amministratore Delegato mentre si sedevano nuovamente attorno al grande tavolo ovale delle riunioni. Il Monsignore lo guardò un po’ stupefatto e non rispose. Poi, quando per sbaglio si fu seduto al posto che la mattina era stato occupato dallo stesso Amministratore Delegato, sembrò svegliarsi e disse, con un ritardo che ormai rendeva la frase illogica: "Tutto bene".
Sull’esempio del Monsignore, tutti quanti si diedero all’esercizio di cambiare posto. Alla destra del religioso sedettero la Dottoressa Schwacher e i due aiutanti dell’autore, prima la ragazza poi il ragazzo; alla sua sinistra, l’Amministratore Delegato e il Direttore Editoriale. Solo l’autore era rimasto esattamente al suo posto. L’Amministratore Delegato approfittò dell’occasione insperata per cedere temporaneamente al Monsignore la presidenza della riunione, facendo un ampio gesto di delega all’indirizzo dell’uomo ora seduto al suo posto.
Il silenzio piombò nella sala. Il Monsignore, nel tentativo di trovare una concentrazione che evidentemente continuava a sfuggirgli, socchiuse gli occhi fino a renderli due fessure sottilissime. Poi, finalmente, parlò:
"Questa mattina avevo fatto una domanda all’autore. Lui mi ha risposto con un’altra domanda. Forse giustamente, perché io non avevo letto il suo libro. Mi dispiace se l’ho... urtato in questo modo. Non era davvero mia intenzione. Ma lui, d’altra parte, mi ha risposto con una domanda, come farebbe un politico. E qui non facciamo politica, facciamo cultura. Inoltre, io sono qui nella veste di consulente, non di editore, e questo può spiegare perché non mi sono messo a valutare la sua opera, ma ho cercato, invece, di aprire un dialogo; anche per capire chi avevo di fronte. Ma lui si è piccato e ha polemicamente rintuzzato la mia domanda, assumendo un atteggiamento stizzito che poi ha mantenuto anche nel dialogo con gli altri. Ecco: quello che di poco comprensibile trovo in questa riunione è proprio l’atteggiamento provocatorio dell’autore. Nessuno gli è nemico, qui. È stato accolto con disponibilità, con simpatia, con curiosità. Ma lui si è comportato come se già pensasse di non essere stato compreso, e di non poterlo essere in alcun modo. E questo è un pregiudizio, nei nostri confronti. Quindi, l’impressione che si ricava è che l’autore ritenga erroneamente di essere vittima di un pregiudizio da parte di questa assemblea, mentre forse la verità è che proprio lui ha un pregiudizio nei confronti di essa".
Il Monsignore tacque, guardando l’uomo. L’uomo tacque, abbassando gli occhi. Il silenzio era totale, e spesso come se fosse una materia solida. Quando la voce dell’uomo lo ruppe, per un attimo sembrò a tutti di aver sentito un rumore lontano di vetri infranti:
"Io ho chiesto a tutti voi se aveste letto il mio libro solo per sapere se lo avevate letto, e non per rimproverarvi di non averlo letto, né per ottenere che lo leggeste".
"Come come come?", intervenne il Direttore Editoriale col tono scanzonato di chi si diverte a prendere in giro i turisti stranieri per il buffo linguaggio che parlano. "Scusi, ma non ho capito niente. Può ripetere da capo?", chiese esilarato.
Alla battuta sorrisero tutti tranne il Monsignore. Gli aiutanti si volsero anche a guardare l’autore per sentirne la risposta, la ragazza addirittura con una mano sulla bocca per soffocare la risatina che le stava scappando; gli altri due si limitarono a lanciarsi un’occhiatina di compiacimento per la prontezza e il brio di quella domanda.
"Lo vede che lei continua a farsi il vuoto attorno?", riprese il Monsignore. "Come si fa a dialogare con qualcuno che è tanto prevenuto come lei? Io vorrei aiutarla. Tutti qui vorrebbero aiutarla", e si guardò attorno non ottenendo alcun gesto né di consenso né di dissenso. "Ma come si può aiutare qualcuno che si comporta come un animale ferito?"
"Beh", intervenne l’Amministratore Delegato, "mi pare che qui non se ne esca più. Credo proprio che sia meglio chiudere su questa battuta e andarcene tutti a lavorare".
"Ancora un momento, Alvise, scusami", disse il Monsignore. "E chiedo scusa anche a tutti i presenti se li sottrarrò ancora per pochissimo alle loro occupazioni. Ma prima di chiudere vorrei proprio sapere dall’autore che cosa mai si aspettasse da questa riunione, ammesso che si aspettasse qualcosa."
L’autore attese qualche secondo in silenzio, poi strinse leggermente le labbra in una specie di sorriso smorzato e disse:
"Padre, lei rimprovera me di piccarmi, e di stizzirmi, ma io credo che sia il contrario. È questa assemblea a piccarsi, e a stizzirsi, per il mio comportamento, che credo di aver sempre mantenuto ben al di qua della villania e dell’offesa. Ma se io non sono stato villano e ciononostante l’assemblea si è sentita offesa, allora vuol dire che i singoli individui non si sono risentiti per sé, ma per il potere che rappresentano. Poiché io non rappresento alcun potere, il Direttore Editoriale può ironizzare sulle mie argomentazioni riducendole a filastrocche incomprensibili, ma io non posso ironizzare con la Dottoressa Schwacher sulle reazioni del pubblico di estrazione cattolica agli squartamenti proposti dalle vostre collane. Questo è potere. E poiché io non rappresento alcun potere, voi tutti potete risentirvi perché faccio domande troppo dirette e mi prendo libertà che non dovrei prendermi, mentre io non posso neanche informarmi sul vostro grado di conoscenza del mio libro senza farvi un grave affronto. E questo è potere. Ma in questa riunione io ho solo tentato di basare il mio dialogo con voi su un dato di fatto o su un altro: la vostra conoscenza o meno del testo che io vi avevo proposto e di cui avremmo dovuto discutere. Il guaio è che voi siete abituati a vedere un intento polemico anche nel semplice tentativo di muoversi verso un dato di fatto, e a scambiare per un atto d’accusa il desiderio di costruire un dialogo su basi di realtà. Ma non è così. La realtà è la realtà e non ha colpevoli, almeno fino a quando qualcuno non confessa la propria colpevolezza risentendosi proprio perché si è fatto ricorso a un dato reale. Rilevare che l’attraversamento di un incrocio con il semaforo rosso è un pericolo mortale per tutti quegli innocenti che – in un veicolo o a piedi – stanno invece passando con il verde, non è di per sé un atto di accusa contro un’amministrazione o un governo o uno Stato o un’intera civiltà. È un dato di fatto. Tutti possono rilevarlo. Se qualcuno se ne risente, vuol dire che poteva fare qualche cosa e non l’ha fatta. E pure rilevare che nessuno dei partecipanti alla riunione aveva letto il mio libro non era un atto di accusa, ma un dato di fatto. Un sentimento da cui partire".
"Un sentimento di umiliazione?", chiese il Monsignore.
"No. Un sentimento di comunione."
"Bella comunione, la sua", disse con ferma delicatezza la Dottoressa Schwacher. "Quando ho parlato delle nostre collane mi ha trattato come una pazza."
"Lei, Dottoressa Schwacher, non aveva trattato come una pazza la realtà? Secondo lei il pubblico cattolico si sarebbe risentito nel leggere qualcosa che lei aveva intuìto qua e là sfogliando il mio testo, e invece non si risentirebbe affatto quando giovani di vent’anni gli presentano come produzioni del loro spirito fantasie di squartamento..."
"Mi scusi", quasi lo interruppe il Monsignore, "lei parla di una possibile comunione con noi, ma su che base, visto che il suo libro non lo aveva letto nessuno?".
"Comunione, in umiltà, proprio su quel dato di fatto. Sarebbe bastato sintonizzare i nostri sentimenti su di esso, e saremmo entrati in comunicazione. E avremmo dialogato in pace. I dati di fatto, belli o brutti che siano, generano sentimenti. E ogni sentimento è a sua volta un dato di fatto. E se è buono cambia la realtà in bene, cancellando dal libro della vita i dati di fatto negativi, come se non fossero mai esistiti. Chi ha la forza di accettare la realtà, per quanto dolorosa essa possa essere, con un sentimento la potrà trasformare. Perché i sentimenti sono la realtà e la realtà è un sentimento. L’illusione, no."
"Oh! Ecco finalmente spiegato il segreto del sentimento di Dio!", intervenne bruscamente l’Amministratore Delegato con il tono di chi la vuol chiudere lì.
Il Monsignore, che invece voleva ancora andare avanti, gli fece un gesto con la mano per farlo tacere, poi chiese all’uomo:
"È vero? È questo che lei intende per ‘sentimento di Dio’?".
"Più o meno."
"Io la chiamo fede."
"È vero, la fede è un sentimento. Lei, Monsignore, è un uomo di fede. Ma, come lei sa, la fede è un dono, non un presupposto. È un dono che il Signore fa a chi è giusto. E un uomo giusto è qualcuno che agisce secondo un sentimento: quello di giustizia, appunto. E poiché la fede non si riceve una volta per tutte, ma va richiesta e perseguita quotidianamente, solo un costante esercizio della giustizia può creare i presupposti perché il dono si rinnovi. Chi non è giusto non avrà in dono la fede, e brancolerà nel buio. E nel buio incontrerà la luce illusoria del potere, e scambierà quella luce per la luce di una nuova giustizia. E da quella falsa luce trarrà i suoi comandamenti, su di essa modulerà le sue azioni, che saranno regolate secondo leggi non meno rigide di quelle di Mosè, ma che a lui sembreranno molto più leggere, e più remunerative. A quelle leggi si dovrà uniformare sempre, e se le infrangerà perderà tutto: l’onore, gli amici, i mezzi di sostentamento, a volte la vita stessa. Le leggi del potere sono la prigione degli uomini, ma gli uomini pensano che esse siano invece la chiave della libertà: dall’emarginazione, dall’inferiorità, dagli stenti. E dall’ingombrante fardello dei sentimenti."
L’uomo si fermò un attimo per chiedere da bere alla Dottoressa Schwacher, che aveva la bottiglia proprio davanti a sé, e che prima di allungargliela esitò un attimo, come se ritenesse quella richiesta un po’ fuori luogo.
"Voi tutti vi siete fatta l’idea che io sia ombroso e suscettibile, ma in realtà io reagisco solo al dolore di vedere come siete voi. Non me la prendo per me: sono dispiaciuto per voi. Ma questo non potete comprenderlo: infatti, voi ritenete che essere come siete sia affar vostro, non mio. E a voi va bene così. Anzi, pensate che a voi andrà molto meglio che a me, visto che voi sapete agganciarvi alle leve giuste e io no."
Qui si fermò e rivolse uno sguardo ai suoi aiutanti, senza né disprezzo né risentimento né severità né malizia, ma anche senza ombra di accondiscendenza.
"Ma se voi vedeste quello che vedo io, vedreste incombere su di voi un’ombra talmente orrenda da farvi gettare ai piedi della croce a chiedere pietà per le vostre esistenze. Grande o piccolo che sia, infatti, il potere è uno solo. E ha un solo nome. E quel nome glielo ha dato il nemico di ogni giustizia. Non confondete il potere con l’autorità. Una famiglia, come un’impresa, come una Chiesa, come uno Stato non si fonda e non vive senza l’autorità. Ma l’autorità è l’esatto contrario del potere, perché l’autorità esiste e il potere è un’illusione, e perché l’autorità è lo sviluppo di qualcosa che il potere non può comprendere: l’umiltà. L’umiltà è un sentimento. Il più potente di tutti. L’umiltà genera la dignità. La dignità genera la volontà. La volontà genera la forza d’animo. La forza d’animo genera l’autorità. Se si è padroni dell’autorità si ha il potere su se stessi, perché l’autorità genera la giustizia. E la giustizia genera la fede. E la fede trafigge il male con la sua luce e lo precipita nell’abisso. Questo cammino non ha alternative. Questo è il cammino della croce, ed è sempre in salita. Il cammino proposto dal nemico di ogni giustizia, invece, è il rovesciamento di questo e si sviluppa al contrario. Ed è sempre in discesa, perché il suo punto di origine non è l’umiltà, ma il potere, che è in alto. Il potere genera un sistema di giustizia fondato su di sé, e quel sistema genera l’illusione di possedere l’autorità necessaria per giudicare, spesso con disprezzo e disgusto, quei poveri Cristi che stanno facendo l’altra strada, quella in salita, e non conoscono le regole del potere. Essi verranno condannati senza appello all’esclusione, a meno che non imparino le regole, e vi si sottomettano."
Si fermò ancora una volta. Sentì tutta la durezza del ghiaccio che aveva attorno. Gli parve di udire lo scricchiolio delle ossa dei presenti serrate nella morsa del gelo che essi tentavano di riservare a lui. Guardò nel suo dolore e vide in esso la vita che in loro mancava.
"Sapete chi c’è dietro tutto questo?", proseguì. "Sapete chi è a dettarvi quel sistema di semplici regole che, rendendovi bene accetti al potere, vi faciliteranno la vita? Il vostro istinto annusa con voluttà il suo odore, ma quando potrete sentirlo da vicino vi salirà il vomito alla bocca e manderete urla di terrore. Non illudetevi che il suo sia l’odore dello zolfo. Quanto è stato bramato questo odore, nei secoli, quanto ci si è inebriati delle sue promesse di orge, di iniziazioni, di facili acquisti del potere magico, di sabba in cui sfrenarsi in ogni eccesso, rotolandosi nel godimento del sacrificio di sé a quanto di più turpe si possa concepire. Ma quella è roba da ridere, al confronto della degradazione finale che verrà richiesta a chi si prostra davanti al potere. Lui, il nemico di ogni giustizia, non è libero. Per questo non mantiene mai le sue promesse. Lui ha una Signora. E a lei consegnerà quegli infelici, affinché li disgreghi in sé, nutrendosi degli umori della loro decomposizione e inebriandosi del fetore dei loro miasmi. Quel fetore è il profumo dell’eterna illusione, ed è il vero odore del potere, che voi non sentite perché lo scambiate per una fragranza di viole."
"La Signora, come la chiama lei, è parte della vita", suggerì con un po’ di incertezza il Monsignore.
"È parte della caduta, non della vita."
"Ma dalla caduta ci ha già rialzati Gesù Cristo."
"Lui ha vinto la morte."
"Certo. Appunto."
"Ma la morte è qui. Più trionfante che mai."
"Amico mio: lui era Dio. Noi no. Anche il male è ancora qui, se è per questo. Le porte del Paradiso sono state aperte, ma sta ancora all’uomo scegliere. L’uomo è libero."
"Anche Dio."
"Che vuol dire?"
"Che se l’uomo da quell’orecchio non vuole sentirci, lui gli parlerà dall’altro."

La riunione era arrivata alla sua conclusione. L’Amministratore Delegato riprese la parola per chiuderla formalmente:
"Credo di interpretare il pensiero di tutti dichiarando che la proposta editoriale dell’autore non è approvata".
Si alzò, strinse la mano al Monsignore e alla Dottoressa Schwacher, poi prese con sé il Direttore Editoriale e spingendolo delicatamente per un gomito si allontanò con lui. Quest’ultimo, prima di uscire di scena, girò la testa e fece una faccia buffa e ammiccante, che evidentemente voleva rappresentare un gesto di congedo. Dopo aver fatto un saluto con la mano, la Dottoressa Schwacher si avviò dietro di loro come se fosse stata invitata a seguirli. I due aiutanti, di nuovo impacciati dopo l’uscita di scena di quei tre personaggi che ne avevano esaltato tutte le energie nascoste, restarono per un po’ impalati a guardare il Monsignore. Ma presto si resero conto che questi non poteva rappresentare per loro una fonte di calore paragonabile a quelle che si erano appena dileguate. Allora si volsero verso l’autore, e il ragazzo, con un tono di voce che intendeva sottolineare tutto il senso del dovere che c’era in quella proposta, gli chiese se voleva un passaggio in macchina.
"No", disse il Monsignore. "Vorrei che il piacere di accompagnare l’autore al suo albergo fosse mio."
I due giovani restarono a bocca aperta, come se avessero improvvisamente scoperto di essere stati ingannati da qualcuno in cui riponevano la loro ingenua fiducia. La ragazza, con un mezzo sorriso tirato, si avvicinò al Monsignore e flettendo leggermente le ginocchia accostò alle labbra la mano che questi le aveva porto. Il ragazzo, sempre meno a suo agio, volle fare la stessa cosa, ma mentre si accingeva a baciare la mano del prelato si ricordò di aver fatto – ma non sapeva bene quando né perché - una scelta laica fondamentale per la sua immagine di sé; allora, per coerenza, prese da sotto la mano che il Monsignore gli aveva porto a palma in giù e, anziché baciarla, la agitò orizzontalmente due o tre volte e poi gliela restituì. Rosso come un peperone per la scena comica che aveva appena interpretato, se ne andò verso la porta, dove lo attendeva la ragazza. Quest’ultima, rivolta all’autore, disse solo: "Ah, ciao". Il ragazzo, invece, per recuperare le energie spese nell’imbarazzo, riservò al suo maestro solo un gesto della mano che voleva dire: "Ti saluto. Statti bene".

Il Monsignore mandò via l’autista e decise di guidare lui. Sembrava intenzionato a riprendere a quattr’occhi il discorso interrotto e magari ad approfondirlo, ma invece non riuscì ad aprire bocca durante tutto il tragitto. L’autore gli chiese di lasciarlo all’angolo di una stradina in salita dove era vietato il transito alle auto. Il Monsignore non ricordava di essere mai stato in quella parte della città. I palazzi erano antichi come in centro, ma invece aveva l’impressione che il tragitto li avesse portati in estrema periferia. C’erano tutte collinette, e la stradina che l’autore doveva salire si arrampicava su una di esse. Il Monsignore si accorse che era estremamente ripida.
"Ma… il suo albergo è lassù?"
"Sì", rispose e indicò la sommità brulla e senza palazzi della collina.
"E non ci si arriva in macchina. Neanche in taxi?"
L’autore scosse la testa. Gli occhi gli brillavano per la prima volta in un sorrisetto allegro, un po’ malizioso, a labbra strette.
Il Monsignore rispose debolmente al sorriso e sentì dentro qualcosa che si squagliava, come un enorme blocco di ghiaccio capitato per ventura in acque calde. Non provava quella sensazione da quando era giovanissimo. La associò prima all’amore infantile per una bambina ebrea che si chiamava Ruth e che morì, e poi alla vocazione che gli aveva sconvolto l’anima e messo contro la famiglia, in seno alla quale era tornato da prete con l’impegno di restituirle tutto l’onore e il potere che la sua scriteriata scelta spirituale aveva messo a rischio.
"E i poveri clienti si devono incollare i bagagli e portarli fin lassù?", chiese aggrappandosi all’ultima speranza.
"Padre. Falla finita", disse l’uomo, poi uscì dalla macchina, chiuse lo sportello e si avviò su per la stradina.
Il Monsignore uscì a sua volta. "Posso accompagnarti?", azzardò.
"Dopo devi tornare?"
Non seppe che cosa rispondere. L’uomo si girò e ricominciò a salire. Lo fermò il grido del Monsignore: "Aspetta. Scendi un attimo: voglio abbracciarti".
"Sali un attimo. Voglio abbracciarti."
Il Monsignore arrancò su per la salita fino all’uomo. Lo raggiunse e gli si buttò contro in un abbraccio che aveva atteso per tutta un’eternità. L’uomo ricambiò l’abbraccio e si commosse.
"Che andrò a raccontare, là sotto?", chiese angosciato il Monsignore.
"La verità."
"Ma è la verità?"
"Fai un po’ tu."
"Voglio dire: sei tu?"
"Io sono io. E tu sei tu."
"Non parlarmi come parleresti a Giovanni. Io sono della razza di Pietro, e non capisco tutte le cose che capirebbe lui. Ti prego, dimmi: tu sei lui?"
"Io sono lui. E tu sei lui. E tutti siete lui. Il fatto è che io me lo ricordo e voi no."

 

 

 

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