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Mario Corte
CITAZIONI
Michelino
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27
Michelino
non vedeva l’ora di tornare a casa per correre in terrazza, ma dovette
frenare il suo entusiasmo perché la zia, invece, volle portarlo a casa
sua. I nonni non c’erano. Lei gli offrì una fetta di dolce, che lui
divorò in fretta nella speranza che lo riaccompagnasse a casa subito
dopo. Ma la zia sembrava volersela prendere comoda. Si sedette sul divano
accanto a lui e lo abbracciò.
“Quanto ti vuole bene zia tua?”, gli chiese con una voce bassa e pigra
che a Michelino parve quella di un gatto che russa.
“Tanto”, rispose per educazione.
“E tu, quanto vuoi bene a zia tua?”
“... Tanto”, azzardò Michelino a mezza bocca sapendo di mentire. E si
ricordò di un viaggio che la zia aveva fatto con lui e i suoi genitori.
Quando andavano al ristorante ei, che si sedeva sempre accanto a lui,
diceva di non avere fame. Michelino, invece, non vedeva l’ora che gli
servissero il suo piatto preferito: i tortelloni alla Giannino. Quando
finalmente arrivavano fumanti davanti a lui, la zia, dopo aver fatto la
solita premessa (“Quanto vuoi bene a zia tua?”) e aver ricevuto la
solita risposta forzata (“Tanto”), gli chiedeva se poteva
“assaggiare un tortellone” dal suo piatto. Per lui cominciava una
lenta tortura, perché dopo il primo ne assaggiava un secondo e poi non si
fermava più. Ogni volta che gliene rubava uno, Michelino, cercando di non
farsi vedere, infilzava nel piatto un tortellone immaginario e si metteva
in bocca la forchetta vuota, fingendo di masticare, poi ne prendeva uno
vero e lo mangiava veramente. In quel modo gli pareva di pareggiare il
conto recuperando con la fantasia i bocconi che gli erano stati appena
sottratti. Verso la fine la zia azzardava persino una battuta del tipo
“Mi sa che non ti vanno più. Mica li lascerai lì?”. Mentre lei
estingueva gli ultimi due o tre tortelloni, lui ripeteva freneticamente la
sua manovra di inforchettamento immaginario. Poi beveva per mandare giù
quel boccone che, nonostante l’esiguità, era diventato pesante e
indigesto.
“E come si dice a zia tua che ti ha regalato tutti quei soldatini?”,
lo incalzò ora.
Michelino pensò che erano il giusto risarcimento per tutti i tortelloni
che gli aveva razziato, ma non osò dirlo, anche perché era solo con lei,
e lei gli faceva paura.
“Grazie.”
“Ammazza che entusiasmo! Grazie...”, disse facendo la voce piccola e
lagnosa per imitare il tono del nipote. “E un bacetto non me lo dai?”.
Sperando che la finisse presto, Michelino si dispose ad accontentarla, ma
mentre stringeva la bocca per darle il bacetto sentì che le sue labbra
venivano assorbite in una specie di lago caldo, vischioso e senza fondo.
Poi la zia gli premette il viso contro il proprio petto e lui sentì come
delle fauci gigantesche chiudersi attorno alla sua testa. Mentre la zia
emetteva un suono che aveva poco di umano, come un ronfo di animale, lui
sentì la sua corporeità disciogliersi come burro in un brodo denso e
ribollente.
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42
Michelino
era entrato nel territorio desertico della colpa che cerca incessantemente
di eludere se stessa e invece si rinnova ad ogni istante, presentando,
come in uno specchio, le deformità e le mutilazioni provocate da un
peccato originale imprevisto e insanabile. Impossibilitato a trovare la
via d’uscita dal dolore, ormai riusciva solo a ripetere all’infinito,
con le modalità più variegate, le azioni che avrebbero dovuto allentare
le sue tensioni e che invece le riattivavano e le rafforzavano a ogni
nuovo tentativo. La possibilità che continuava a vedere davanti a sé era
sempre la stessa: diventare grande, perché per un grande quella colpa non
era tale, o almeno non era così grave. Ma poiché non poteva diventare
grande da un istante all’altro, per magia, l’unica strada era
insistere a fingersi più grande di quello che era; così, se mai i suoi
scheletri fossero stati disseppelliti, gli occhi del mondo lo avrebbero
guardato con la tolleranza con cui si guarda a chi è troppo sviluppato
nella mente per seguire le regole di un’età acerba e ancora penosamente
inadatta alle prassi degli adulti.
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187
Da
quel giorno Michelino non aveva mai più visto brillare la luce sulla
fontana. Aveva attraversato il suo destino con coraggio, ma la convinzione
di essere stato contaminato gli aveva impedito di sentirsi degno
dell’amicizia di quei personaggi.
Una mattina di un’estate di un anno che non ricordava più, in terrazza,
si era avvicinato alla fontana, e con le lacrime che gli premevano dentro
gli occhi e il mento che gli tremava aveva chiamato François. Nessuno
aveva risposto, e lui aveva capito che solo la fine della paura gli
avrebbe riportato il suo mondo perduto.
Gli amici della fontana avevano cercato di dirgli qualcosa che lui non
poteva accettare dal luogo in cui si trovava prigioniero: che Michelino
era l’Atteso, e che tutti loro erano venuti alla fontana dalle profondità
del tempo, dello spazio e del mito come i pastori e i Magi vanno alla
grotta di Betlemme. Loro erano lì a testimoniare il fatto che nulla
poteva corromperlo, perché ogni bambino è l’Atteso e perché nessun
bambino può essere corrotto da nulla.
Il suo senso di indegnità nutriva la sua paura e la paura lo costringeva
in un angolo in cui non poteva più scollarsi di dosso l’indegnità. La
prima delle due che avesse ceduto avrebbe travolto e sradicato anche
l’altra, ma lui non si fidava del proprio coraggio e della propria
instancabile capacità di andare avanti, e voleva un genitore che gli
dicesse:
“È tutto finito. Sei perdonato. Sei di nuovo la mia stella”.
Dirselo da solo gli pareva il frutto bacato di quella stessa indegnità
che stimava parte della sua natura.
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