M. Corte, L'amministratore

La giornata di Massimo fu brutta. Piena di piccoli inciampi e incidenti. Quando, verso l’ora di pranzo, si fermò in un bar a mangiare qualcosa, sentiva dentro l’ombra del ricordo di quella bella fame che accompagnava i suoi mezzogiorni. Ordinò un meraviglioso medaglione con uovo fritto e prosciutto, ma non riuscì a goderselo e fece una fatica enorme a digerirlo. Un paio di lavori a cui teneva molto gli furono rinviati. Fece una sola intervista, con un ex dirigente del bilancio inglese che gli aveva promesso rivelazioni straordinarie su certi impieghi dei fondi della Corona d’Inghilterra e che invece gli chiese un piccolo prestito perché voleva stabilirsi in Italia con la sua amante ed era quasi al verde. A casa, Ale gli aveva preparato il couscous, ma lui lo toccò appena. Nel passare davanti alla guardiola buia, prima di entrare in casa, a Massimo era parso di sentire la voce del portiere salutarlo sommessamente, come a volersi giustificare per il mancato saluto della mattina. Lui e Ale passarono la sera sul divano del salottino a guardare fotografie. Massimo si sentiva invecchiato. Appoggiò la testa sulla spalla di Ale e si addormentò di colpo di un sonno cupo e malinconico. Ale gli accarezzò per un po’ la testa e poi, come un sonnambulo, lo condusse a letto.

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M. Corte, L'amministratore

Rallentò il passo, si fermò un attimo di fronte ai due, prese un bel respiro e poi lasciò partire un "Buongiorno!" talmente sonoro che anche un sordo avrebbe avuto il dubbio di aver udito qualcosa. L’amministratore continuò a scorrere le sue righe masticandone tra i denti i contenuti, come se nulla fosse mai avvenuto. Il portiere, da parte sua, lanciò a Massimo un’occhiata velenosa che sembrava voler dire: "Ma come ti permetti, ragazzino, di importunare l’amministratore?". Poi tornò a guardare in faccia quest’ultimo, per scrutarne eventuali malumori provocati dall’intrusione di quello sfrontato. Massimo comprese che per quei due l’episodio era concluso. Attendevano solo che quel buffo individuo, imparata alfine la lezione, si allontanasse con la coda tra le gambe. Massimo sentì tutte le sue energie uscirgli in un momento. Era umiliato e sconfitto. E quella sconfitta gli faceva crollare addosso tutti i pilastri educativi su cui erano costruite le sue convinzioni. Gli parve di vedere secoli di conquiste umane e civili spazzate via da quei due selvaggi che volevano insegnargli la loro legge. E lui doveva starci. E impararla. La loro legge, probabilmente, prevedeva che lui, a sua volta, si rivalesse su altri e, appena raggiunta una piccola, squallida posizione di potere, si desse al godimento delle delizie nascoste dentro la libertà di non ricambiare un saluto. Era finita. Massimo si girò verso il portone e a passi lenti e pesanti lo raggiunse.

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M. Corte, Samuel Serrandi

Limandi condusse l’ospite in salotto. Serrandi guadagnò senza esitazioni una poltroncina accanto a un tavolinetto, ignorando il gesto con cui l’altro lo invitava ad accomodarsi sul divano, sul quale finì per sedersi, invece, il padrone di casa. Quest’ultimo, che stava ormai ufficializzando il proprio imbarazzo con impacci e goffaggini in successione, proprio mentre sprofondava tra i cuscini fu colto dall’idea di chiedere all’altro se poteva offrirgli qualcosa da bere. Mentre Serrandi, impegnato ad estrarre da una bustina blu un fazzolettino imbevuto di profumo, ignorava l’offerta di Limandi, questi pensò bene di alzarsi di scatto dalle profondità del divano e nel farlo andò a sbattere la testa contro uno scaffale della libreria che lo sovrastava. "Attenzione!", disse con gelida sollecitudine Serrandi mentre si detergeva delicatamente il sudore della fronte con la salvietta profumata. "Non è mai successo, glielo assicuro", fu la sbalorditiva risposta di Limandi, che, abdicando definitivamente al suo ruolo di ospite, rinunciò all’idea di offrire alcunché a Serrandi.

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M. Corte, Angelo

Come materializzatosi dal nulla, apparve accanto alla porta della sagrestia un uomo con un vassoio in mano. Sul vassoio c’erano quattro o cinque bicchieri piccoli, di quelli a cornetta, di vetrone, che nelle case modeste si usavano per servire agli ospiti il vino dolce. "Una nuova forma di cerimonia eucaristica?", si chiese Ivan. Marisella prese uno dei bicchieri e ne bevve d’un fiato il contenuto, tornando poi rapidamente al suo posto. L’uomo, che doveva essere il sagrestano, fece girare il vassoio tra i pochi presenti, ciascuno dei quali ripeté l’azione di Marisella. Quando giunse accanto a Ivan, l’uomo sollevò un poco il vassoio per sollecitarlo a servirsi. Ivan era affascinato da quella scena che sembrava gravida di sottintesi magici. Gli ricordava un episodio delle storie del Santo Graal, e per un momento si sentì un cavaliere della Tavola Rotonda. Ma nel suo cuore circolava la colpa. Come nel cuore di Lancillotto, che non avrà mai il Graal. Fece un gesto che significava: "No, grazie". Il sagrestano lo guardò male, poi prese il bicchiere e bevve lui. Mentre si affrettava verso l’uscita per raggiungere Marisella che già stava spingendo il portone, ancora confondeva se stesso con Lancillotto, senza rendersi conto che, anziché tradire un re, era stato lui ad aver subìto vendette e tradimenti; e che la sua unica colpa era, invece, quella di essere stato il prescelto. Una delle vecchiette presenti in chiesa mandò un grido soffocato: le era parso di vedere il crocefisso muoversi. Ma Ivan, che ormai aveva raggiunto il portone, non ci fece caso. "Non Lancillotto, ma Galahad", gli ripeteva dietro il crocefisso, con voce stanca e afflitta. Ma lui non sentiva, perché l’illusione della colpa rende sordi alle parole della vita.

 

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M. Corte, Samuel Serrandi

Limandi riaprì immediatamente il dépliant e cominciò a esaminarlo freneticamente. Si sforzò di capirci qualcosa, ma la sua mente era come bloccata. […] Serrandi cominciò a tirare fuori una serie di fogli da uno dei tanti tasconi della sua borsa di cuoio. Davanti agli occhi atterriti di Limandi, sul tavolinetto, cominciarono a sfilare documenti che recavano messaggi oscuri. Sembravano i verbali di un processo destinato fin dall’inizio a sancire la sua colpevolezza. Sbirciò tra i verbali nella speranza di leggervi un segno di clemenza della corte, ma gli parve di scorgervi, invece, i segni nefasti di una sentenza di morte. Serrandi gli fece scivolare davanti il primo di quei fogli. Gli occhi miopi di Limandi sfiorarono le parole senza soffermarsi su alcuna di esse. Quel blocco mentale che già si era manifestato di fronte al dépliant continuava a neutralizzare qualunque suo sforzo di restare in contatto con la realtà. Limandi non leggeva. Non riusciva a leggere niente. […] Soprattutto non era in grado di pensare. Era letteralmente soggiogato. In qualche modo sapeva, e lo aveva sempre saputo, che tutto quello che Serrandi gli aveva detto era una fantasiosa invenzione e che lì sopra erano stampate le vuote parole di un meschino raggiro, ma ciononostante era pronto a tutto, letteralmente a tutto. Forse per farsi apprezzare da Serrandi. O forse per non indispettirlo. O forse per uscire dall’incubo della sua presenza, ed evitare a se stesso, almeno per ora, una sofferenza che poteva benissimo essere rimandata a più tardi. Naturalmente Limandi non aveva mai sentito nominare né la Sisthematic Multimedial né i giganti editoriali di cui essa era partner. Eppure leggeva di tutto ed era una persona informata. Ma nel suo orizzonte, in quel momento, c’era solo Serrandi con i suoi irresistibili tentacoli. E lui era completamente in sua balìa.

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M. Corte, La 1100 Belvedere

Andavamo a trovarli l’estate in una grande casa in campagna, con tanti alberi di fico e di pesca. Una boscaglia fitta fitta tutto attorno alla casa. Cani. Una fontana secca […]. La moglie apparecchiava una tavola di legno sotto il pergolato e lì loro mangiavano e bevevano. Io non mangiavo quasi niente perché mi veniva da vomitare. Maggi mi trattava come se fossi un piccolo idiota. Ne avevo un ricordo vago e terrificante, perché mi faceva sentire inesistente. La moglie era più buona. Sembrava accettare l’esistenza di tutti. Anche la mia, con una pietà che la spingeva a prepararmi l’unica cosa che potevo tollerare, in quel luogo: la bruschetta. Una volta, però, la preparò con l’aglio; io odiavo l’aglio, ma la mangiai lo stesso, perché non volevo apparire tanto scemo da fargliela rifare. Ricordo che la mangiai tutta, e la tentazione di vomitare cominciò ad aggredirmi prima ancora di finirla. Mi trattenni e mi venne il mal di testa. Gironzolai tutto il pomeriggio per il giardino con le tempie strette in una morsa d’acciaio. Poi, quando loro erano dentro a preparare la cena e cominciarono ad arrivare i primi odori, mi misi a correre e riuscii ad arrivare alla fontana secca prima di scaricare il triturame della bruschetta mai digerita. Riuscii persino a diluire la prova della mia vergogna riempiendo varie volte un innaffiatoio arrugginito che avevo trovato nei paraggi e svuotandolo sui miei rifiuti fino a renderli quasi irriconoscibili. L’odore, acre, però si sentì. Tutto fu scoperto e la signora mi preparò una minestrina leggera di puntine d’ago, che non rifiutai, bloccandomi nuovamente lo stomaco e rischiando un’altra figuraccia. Quando mi salutava, Maggi mi diceva: "Ciao, giovanotto" con gli occhi che non sorridevano mai, e io sapevo che chiamarmi "giovanotto" era il suo modo di ricordarmi che, secondo lui, non lo sarei mai diventato, ma sarei rimasto sempre l’ameba che ero.

 

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M. Corte, La scavatrice

"Allora", esordì il professor Accardo, "state molto attenti a quello che vi dirò ora. Anche tu, Cremona, stai attenti, e soprattutto tu, Santovito, stai attenti. Zorzi! Attenti anche tu!". Il professor Accardo apostrofava spesso i suoi alunni in quel modo, poiché credeva [...] che "attenti" fosse un aggettivo invariabile, e conseguentemente lo usava nella medesima forma tanto al plurale quanto al singolare. Questo suo strafalcione, però, pur essendo notato da tutti [...], non giungeva pienamente alla coscienza di nessuno. Infatti, quando si parlava di Accardo e, come per tutti i professori, lo si prendeva in giro per qualche suo difetto o vizio, mai si faceva cenno a quella evidente magagna (e alle altre che, magari meno evidenti di quella, popolavano il suo eloquio); ed essa, per quella stessa diabolica miscela di timore e pietà che ogni buon despota è capace di suscitare nelle coscienze incerte, veniva passata sotto completo silenzio. Anzi, l’espressione finì per insinuarsi in modo latente e ambiguo nel pensiero verbale degli stessi alunni, pur senza sostituirsi mai del tutto a quella corretta; e così un giorno che il professore di Lettere aveva rimproverato Silvestri (che aveva 8 in Italiano e genitori laureati) per essersi distratto, questi aveva risposto prontamente e fieramente che lui era stato "sempre attent...", sfumando sulla terminazione per non scontentare il fantasma di Accardo in un possibile conflitto di autorità con il collega.

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M. Corte, Samuel Serrandi

"Io sto facendo solo i suoi interessi. E le assicuro che se non firma sarà lei a non saperli fare. E non farà certo una gran bella figura davanti a un professionista navigato come il sottoscritto. Questo detto tra noi."

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M. Corte, Samuel Serrandi

"Entrando ancor più a fondo nelle pieghe del meccanismo di convinzione in oggetto, ci si era accorti che il venditore esercitava un vero e proprio ‘potere personale’ sul cliente. […] Su che cosa si basava questo potere? La risposta più comune era abbastanza sorprendente: sulla capacità del venditore di trasmettere al cliente un’ansia sintetizzabile nel concetto: "se lei perde questa occasione farà una gran brutta figura". Ma per fare una brutta figura con qualcuno bisogna avere un’alta considerazione della sua autorità. E su che cosa si fondava questa formidabile autorità? Ed ecco che gli interrogati, ormai messi nell’angolo, fornivano infine la più liberatoria e la più incredibile delle risposte, una confessione in piena regola: "Mi fa pena. Con tutta la sua parlantina, con tutti i suoi materiali promozionali, con tutte le sue affermazioni categoriche, con tutti i suoi slogan, quell’uomo MI FA PENA". Qualcuno, una volta tolto il tappo, cominciava a provare sentimenti di ribellione e di profonda avversione verso quella insospettabile congiura della pietà che produceva giri d’affari di milioni di dollari. I sentimenti erano sintetizzabili nelle antitesi ai quattro argomenti fondamentali sui quali si basava il potere di convinzione; quelle stesse cose che la gente avrebbe voluto dire ai venditori e che non era riuscita a dire, finendo per cedere a una pietà autolesionistica: 1) "quando mai si è visto che qualcuno va in casa di altri, senza conoscerli, per il solo piacere di fare i loro interessi?" 2) "i miei timori per l’investimento del mio denaro sono più che fondati, visto che i soldi sono miei"; 3) "ma chi la conosce la vostra organizzazione; e poi, se è tanto grande e rinomata, perché manda in giro per le case i suoi galoppini?" 4) "se perdo l’occasione dell’offerta speciale, sarà peggio per me: e a me va bene così". Questo è quanto avrebbero voluto dire, ma non avevano detto. Per timore di offendere l’interlocutore. Per timore di ferire qualcuno che è venuto in casa tua a dirti che non sei informato, che non sai fare i tuoi interessi, che hai timori infondati, che la sua azienda è molto grande e che se sei tanto stupido da perdere l’offerta speciale dopo te ne pentirai... Capisce, ora?"

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M. Corte, Samuel Serrandi

Con la presente liberatoria dichiaro di accettare il fatto incontrovertibile che l’abbonamento ai 15 compact disc di aggiornamento alla Banca dati su Cd-Rom, per un valore complessivo di £ 56.309.100, è stato da Lei sottoscritto esclusivamente per PIETÀ NEI MIEI CONFRONTI. [...] La autorizzo inoltre a rendere pubblica questa mia dichiarazione e confermo, in fede mia, di accettare come parte integrante della transazione testé felicemente portata a termine questa Sua testuale affermazione: LEI MI FA PENA E SOLO PER QUESTO IO LA PAGO e il concetto in essa contenuto. Firmato...

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M. Corte, L'amministratore

Più di una volta, seduto al banco della guardiola, lo aveva intercettato mentre si dirigeva ad ampie falcate verso l’abbraccio di un nuovo giorno, intrappolando il suo passo franco e ostentatamente affrettato nel pantano di un invariabile: "Ha visto, Signor Massimo?". "Che cosa?", rispondeva a denti stretti Massimo, frenando la sua corsa come un automobilista frustrato nella sua baldanza dalla paletta di un vigile. "Come che cosa?", ribatteva il portiere, cominciando immediatamente a esporre il suo punto di vista sul fatto del giorno. Gli argomenti erano i tre sui quali lui, come quasi tutto il resto del genere umano, sentiva di avere il dono dell’opinione sempre chiara, originale e coraggiosa, quella che va dritta all’evidenza dei fatti: la politica, la giustizia e il calcio. Massimo, desideroso di ricambiare la cordialità del portiere e contemporaneamente di limitare i tempi di intrattenimento, all’inizio aveva ceduto all’ascolto di quei complicati sermoni, limitandosi a tossicchiare nervosamente e a guardare insistentemente l’orologio, mentre la mente vagava altrove. Ma guardare l’orologio quando si ha di fronte qualcuno che ha il precipuo obiettivo di sottrarti il tuo tempo per destinarlo brevi manu a se stesso, è un’operazione inutile.

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M. Corte, L'amministratore

"Buongiorno!", disse Massimo con voce chiara e forte all’indirizzo dei due. L’intero androne del palazzo riecheggiò del suo saluto. L’amministratore continuò imperturbabile a parlare sottovoce con il portiere. Anzi, con una penna che aveva in mano cominciò a indicare certi punti dell’androne dove probabilmente andavano fatti certi lavori o verifiche. Il portiere, invece, visibilmente imbarazzato, lanciò una mezza occhiata nella direzione di Massimo, senza tuttavia rispondere al saluto neanche con un vago cenno. La mattina dopo [...] il portiere era al suo posto. [...] Massimo stava per salutarlo con allegria, per fargli notare che non ce l’aveva affatto con lui per il mancato saluto del giorno prima, ma il portiere lo prevenne.
"Ha visto, signor Massimo?"
Massimo barcollò. Non poteva credere che il portiere avesse la sfacciataggine di proporgli un altro dei suoi editoriali, dopo la
performance del giorno prima. E invece lo fece.
"Sì? Diceva?"
"Dicevo, ha visto che schifo?"
"Beh, volendo, di schifi se ne possono vedere tanti. A quale schifo si riferisce?"
Stavolta lo sdegno del portiere era rivolto contro la nazionale di calcio e il suo commissario tecnico. L’editoriale fu più avvelenato del solito. Sembrava che la frustrazione del portiere aumentasse di giorno in giorno. La faccia gli diventava tutta rossa e ogni tanto spalancava gli occhi come un folle, guardando fisso Massimo come se questi fosse il suo accusatore in un processo da cui dipendesse la sua stessa vita. Massimo era insieme irritato, imbarazzato e intenerito da tanta infelicità.
"Dice che comunque siamo qualificati ai mondiali. Bravi! Bene! E con questa squadra che ci facciamo, ai mondiali? Eh? Se le immagina quelle mozzarelle contro il Brasile? Eh? O la Germania? Eh? Ma stiamocene a casa! Eh? Lei che dice?"
"Beh, il mondiale è un po’ una storia a sé. Si ricorda nell’ottantadue? Pochi giorni prima di battere l’Argentina e il Brasile avevamo pareggiato a stento con il Camerun... Poi travolgemmo la Polonia e la Germania e vincemmo il titolo..."
Il portiere lo guardò fisso in volto per mezzo minuto, poi distolse lo sguardo da lui e con evidente disprezzo commentò:
"Beato lei, che crede ancora alle favole". "Vada, vada", concluse con un sorriso amaro in viso. "Vada, che sennò fa tardi".
E intanto faceva un gesto vago con la mano, come a voler significare: "Circolare, circolare...".
Massimo, un po’ mortificato e un po’ sollevato per essere stato infine congedato, lo salutò e se ne andò chiudendo piano il portone dietro di sé.

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M. Corte, Samuel Serrandi

"Sa che vengo da Torino? Sono sceso dall’aereo non più di tre quarti d’ora fa. Il tempo di prendere al volo un taxi ed eccomi qui. 85.000 lire di corsa. È tanto o poco? Sa che non lo so: la Sisthematic Multimedial paga tutto; proprio tutto: neanche un caffè ci fa pagare. E poiché io lavoro sempre, e sono quasi sempre in trasferta, sto perdendo il senso della realtà, per quanto riguarda le cose economiche. L’altro ieri ero a Ravenna. Alla "Candela rossa" ho fatto una cena, sì, sostanziosa – sa, io a pranzo non mangio quasi mai, spizzico, come si dice al mio paese, e allora la sera mi rifaccio - ma 170.000 lire mi sembrano un po’ tante. O no? Sa che veramente non mi regolo più? Certo, ho mangiato certi maccheroncini "all’amore" che al "Santa Klaus", a Milano, se li sognano. E il pollo alla creta? Io non riesco proprio a immaginare che cosa ci mettano dentro. Saranno i tempi di cottura, sarà qualche spezia segreta, ma è la cosa più buona che io abbia mai mangiato. [...] Allora le piacerà sicuramente la cucina napoletana. Ci sono stato cinque giorni fa, a Napoli. Sapori semplici, niente di troppo ricercato, ma sapori veri. A Napoli l’olio è olio, il soffritto è soffritto, il pomodoro è pomodoro fresco e le vongole sono vongole veraci. E soprattutto, se passiamo a parlare di pizza, la mozzarella è mozzarella. Di bufala. Fresca che se la spremi deve uscire il siero a cascata. Tagliata spessa, che così resta il sapore della mozzarella cruda anche dopo che è passata al forno. A legna, ovviamente. E c’è qualche terrorista che tenta di farti passare per pizza certa roba uscita da un forno elettrico. Che criminali... Scusi se uso parole forti, ma si parla tanto di identità nazionale, di recupero dei valori, di conservazione delle tradizioni, e poi c’è chi pretende di metterci nello stomaco pizze massacrate da un forno elettrico..."
[...] "Le spiego subito: la Sisthematic Multimedial, leader mondiale nel campo dell’editoria elettronica, congiuntamente alla Champyon Edizioni, del gruppo editoriale Champyon & Wynning International, sta lanciando una nuova, straordinaria iniziativa editoriale che solo persone di vasta e profonda cultura, come lei, potranno apprezzare pienamente. Ecco, guardi un po’ qui. [...] "Lei non dovrà affatto comprare l’Enciclopedia, ma solo esprimere il suo parere su di essa. [...] Qualche notizia sull’Opera. Nove anni di lavoro per realizzarla. Versione unica su Cd-Rom: Cd da 640 megabyte, testo, immagini, sonoro, musica, tutto completamente interattivo. […] Contenuto: informazioni interdisciplinari sulle tecnologie avanzate, con testi atti a evidenziare gli input delle realizzazioni tecnologiche decodificandoli e riorganizzandoli su base non solo scientifica, ma divulgativa. [...] Prima di lanciarla sul mercato, la Sisthematic Multimedial e la Champyon Edizioni vogliono vederci chiaro, e testarla in ogni modo possibile. Parliamoci chiaro: questa è un’opera destinata a lasciare una traccia profonda nel panorama della divulgazione scientifica. La produzione è costata tanti, ma tanti miliardi, ma sul mercato non ci andrà finché non sarà perfetta, anche a costo di spendere altrettanti miliardi per metterla a punto. E allora, ecco l’idea rivoluzionaria. Perché non far valutare l’opera prima di metterla in commercio? E da chi? Da esperti, da scienziati, da professoroni? [...] No: quello che ci interessa adesso è il parere degli altri, di voi uomini di cultura, di voi professionisti [...], di voi che potete permettervi di scegliere, perché siete in grado di valutare, di voi che volete sempre il meglio, che pretendete sempre il meglio! Di voi che siete smaliziati, che sapete tenere gli occhi bene aperti. Di voi, che siete il vero polso del mercato".

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M. Corte, Samuel Serrandi

"… Si chiamava Capponatto, con due P e due T, come diceva lui. Che tipo era… Completamente pazzo. Ti chiamava alla cattedra, ti guardava fisso negli occhi e poi ti diceva, quasi sussurrando: "Omero…", e non aggiungeva altro. [...] Ma gli devo tutto. Due lauree ho preso, grazie a lui e alla tigna con cui mi ingozzava di cultura. Giurisprudenza e Lingue. E adesso sto prendendo la terza. Filosofia. È stata il mio sogno da sempre. Però ho poco tempo per studiare. Pensi che l’ultimo esame me lo sono preparato in un fine settimana. Tra venerdì e lunedì. Trenta. Senza la lode. Ma, veramente, mi perdoni il termine, chissenefrega. Tempo fa l’ho incontrato, Capponatto. […] Quante risate ci facciamo quando ci incontriamo. Peccato che ha la moglie che sta male, poveraccio. Ma ha uno spirito! Che uomo."

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M. Corte, L'amministratore

Mentre tirava la maniglia del portone, sentì di essere entrato a far parte, suo malgrado, di una schiera. Una legione di individui che non avevano più scelta. Erano vestiti da galeotti e, appeso al collo, portavano un cartello: ATTENZIONE: INDIVIDUO PRIVATO DI DIGNITÀ. NEI CONFRONTI DI QUESTO INDIVIDUO LE PIÙ ELEMENTARI LEGGI DELL’EDUCAZIONE SONO SOSPESE FINO A NUOVO ORDINE. Riflesso nel vetro del portone, vide se stesso, assieme a tanti altri galeotti, fare la fila per raggiungere un tavolo dove un impiegato distribuiva a ciascuno un foglio grigio; giunto il suo turno, gli fu porta una matita copiativa: doveva segnare una crocetta su una delle due caselle che il foglio grigio gli proponeva; sulla prima c’era scritto: UMILIAZIONE; sulla seconda: SUPERIORITÀ. Massimo esitò. Poteva scegliere tra l’accettare con sottomissione quanto era avvenuto, o il reagire con superiorità, concludendo: "Ma sai quanto me ne importa a me del saluto di quei due cafoni!". Comprese che qualunque scelta avesse fatto, sarebbe entrato in una logica aliena, secondo cui gli uomini non sono uguali: o qualcuno si sente superiore a un altro e l’altro lo accetta, oppure entrambi si sentono superiori e si disprezzano l’un l’altro. Segnare una crocetta su una qualunque casella di quel foglio grigio significava, in qualche modo, compiere un crimine contro l’umanità e contro l’unica, incontrovertibile verità, religiosa e laica, che esiste sulla terra: che gli uomini sono tutti uguali.

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M. Corte, La 1100 Belvedere

"È strano. Tanto strano. Prima era un bambino sempre allegro, gioviale, pieno di fantasia. Cantava e recitava poesie per tutti. Inventava storie. Intelligente. Sveglio. E adesso, invece, […] Eccolo lì. Sempre immusonito. È diventato scontroso e scostante, lui che era solare, aperto e spregiudicato anche con gli estranei. Pensi che quando lo portavo al lavoro con me, fino a qualche tempo fa, era l’attrazione di tutto l’ufficio. Lo adoravano tutti. Adesso me lo trattano come se avesse qualche malattia. Se ne sta lì silenzioso, in disparte, a malapena risponde al saluto dei colleghi, non sorride neanche per compiacenza. E poi, in casa, è diventato dispettoso. E infido. Sembra che rimugini sempre qualcosa. Non parla mai, ma poi, appena gli si fa un rimprovero, è subito pronto a fare polemiche. Allora sì che parla. Si ferma solo con le botte. Puntualizza e pignoleggia su tutto. Le assicuro che tentare di piegarlo è un’impresa, a questo punto. Abbiamo pensato persino di affidarlo a qualche... istituto di religiosi che gli sappiano parlare, dargli una guida. Ma non me la sento proprio. Preferirei che il dottor Maggi gli desse una cura, mi consigliasse qualche terapia, qualche incontro con uno psicologo, non so, non so..."
"Lei sembra avere grande fiducia nel dottor Maggi."
"È una persona navigata. Un amico fidato. Uno che conosce bene i problemi della nostra famiglia. E poi mia moglie, povera donna, non ne può proprio più."

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M. Corte, La 1100 Belvedere

La bocca che forse aveva troppo parlato, troppo espresso, e che ora era bloccata nella fissità esangue di una perenne fessura semichiusa. Il naso incerto, nel crescere, tra un esito di appallottolamento che lo avrebbe liberato all’eterno bambinesco e infine al ridicolo, e uno di prolungamento che gli avrebbe segnato anzitempo il volto con l’allusione al suo essere già troppo adulto. Il viso allungato. La testa, che fino a pochi mesi prima doveva essere stata arrotondata e ben proporzionata, ora si protendeva un po’ troppo appuntita verso il cielo alla ricerca di una risposta, di una voce d’angelo che lo aiutasse a comprendere un perché troppo difficile per la sua anima di bambino. Le orecchie un bel po’ scostate dal capo, come a voler origliare alla porta di una vita che gli aveva fatto promesse di melodie straordinarie e che ora lo aveva escluso dalle delizie del suo bel canto. E finalmente gli occhi, velati come due stelle che brillano lontane proprio sullo sfondo di una selva di ciminiere insensibili al cielo, e capaci solo di affumicarlo con le loro scorie grevi.

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M. Corte, La 1100 Belvedere

Pensai a mio padre, che stava chiuso nel buio della sua 1100 Belvedere, e il cuore mi si strinse. Era un brav’uomo, che come tutti noi sa ma non sa, e si pone domande senza risposta solo perché esse gli assicurano la possibilità di aggrapparsi al dubbio; e sa bene che se smettesse per un momento di porsi quelle domande cieche dovrebbe incontrarsi con le risposte che da sempre erano lì, semplicemente lì. Ma pensai anche ai "problemi della famiglia", alla mamma che non ne poteva più, a Maggi, a quanto era "navigato" e "fidato", e alle cure e alle terapie che si stavano organizzando per immergere nel fonte battesimale dell’oblio quel bambino che un giorno era stato felice, ma che ora sapeva troppo per poter aspirare a esserlo ancora. Entrai a precipizio e sbattei lo sportello, come un poliziotto americano che si prepara ad inseguire un criminale. Legai Chicca al seggiolino, chiusi decisamente la mia cintura e bloccai gli sportelli. Poi lo guardai nello specchietto: gli occhioni gli brillavano e aveva la stessa faccia eccitata ed estasiata di quando papà non aveva ancora incontrato Maggi, e lo faceva sognare perché era un grande eroe. Ingranai la prima e partii.

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M. Corte, Angelo

Angelo era stressato e frustrato come non gli era mai capitato in vita sua. Il suo mondo era andato in frantumi dopo l’arrivo di Ivan. L’idolo, il mito, il capitano e il capo indiscusso della squadra e del quartiere era ancora lui, ma quel damerino che sapeva spingere in porta solo palle aeree già destinate a finirci era arrivato nella sua vita come una maledizione. Già lo odiava. Lo odiava per la sua falsa umiltà, per il suo falso altruismo, perché gli passava sempre quella palla proprio sui piedi, mai qualche metro avanti come voleva lui, e lo faceva apposta, per farlo incespicare. Lo odiava perché era un figlio di papà, perché faceva l’università invece di guadagnarsi da vivere faticando, come lui. Perché non spendeva mai una parola di elogio, e neanche di considerazione, nei suoi confronti, ma si limitava a sorridergli con quella faccia cretina, come se volesse fargli capire che per lui il grande Angelo non era nessuno. Lo odiava perché aveva una fortuna assurda. Tirava in porta e la palla andava dentro, a volte rotolando a volte a balzelloni a volte sfuggendo al portiere e a volte direttamente, ma sempre calciata male, con quel piede che sembrava una zappa. Lo odiava perché Ivan era un privilegiato, un ipocrita, uno sci-sci…

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M. Corte, Angelo

Ivan venne contestato, fischiato e pernacchiato in continuazione durante le partite; una volta, poiché gli urlavano "pia-zza-le-lo-re-to pia-zza-le-lo-re-to", si fermò a discutere con il pubblico e cercò di spiegare che tra lui e il suo rivale non si sapeva bene chi fosse più proletario, perché lui era figlio di un sindacalista della CGIL e Angelo di un imprenditore; ma gli arrivò in testa una bottiglietta vuota di chinotto e finì al pronto soccorso. La sua Seicento ebbe la carrozzeria rigata, le gomme tagliate, il parabrezza incrinato e i tergicristalli spezzati.

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M. Corte, La maschera

La mamma aprì il frigorifero e prese la pentolina con la minestra e il tegamino di coccio dove riposavano due quarti di pollo. Ad Ale sembrò di ricordare che quel tegamino lo avesse rotto Aurora mesi prima. Anche la pentolina non la vedeva da tanto tempo. Il lungo gracchiare del citofono coprì lo sfrigolìo del pollo che la mamma aveva messo a scaldare nel tegamino di coccio. Era Massimo. Voleva sapere se doveva andare a comprare il latte per Aurora. Ale attraversò la cucina vuota e silenziosa e, mentre stava per aprire il frigorifero, si ricordò di aver già comprato un litro di latte facendo la spesa la mattina. Tornò verso il citofono per dire a Massimo che non c’era bisogno di latte, ma nel girarsi vide una mano della mamma poggiata su un angolo del tavolo illuminato dalla luce del sole ormai morente; il resto della figura era immersa nell’oscurità. Allora decise che forse un altro litro di latte avrebbe fatto comodo, e mandò Massimo a comprarlo. Tornata in cucina, vide il quarto di pollo fumante nel suo piatto e sua madre che armeggiava attorno all’immondizia.
"Perché butti l’altro quarto di pollo, mamma?"
"Perché la coscia mi fa male: è troppo grassa."
"Se me lo dicevi prima la mangiavo io e a te davo il petto."
"Ti è sempre piaciuto solo il petto."
"E allora che mangi, oltre alla minestra?"
"Niente."
"Mamma..."
"Sbrighiamoci. Sta per arrivare."
"Perché, non lo vuoi vedere?"
"È lui che non gradisce di vedere me."
"Dopo tutto questo tempo Massimo ancora non ti piace, vero?"
"Non deve piacere mica a me."
"Però a me farebbe piacere che la persona che mi sta accanto ti piacesse."
"Anche a me farebbe piacere."
"E perché non ti piace?"
"Non è sincero."
"Come fai a dirlo?"
"Si vede. Sembra che si voglia sempre nascondere."
"Forse è timidezza."
"Non è timidezza.
Io sono timida. Conosco la timidezza."
"E che cos’è?"
"Falsità."
"Come fai a essere così sicura?"
"Lo so."
"Non potresti sbagliarti?"
"No."
"Che cosa ti fa pensare di avere sempre ragione?"
"Io non ho sempre ragione. Ma su questa cosa
ho ragione."
"E come lo sai?"
"Io
lo so."
[…] "Perché non gli hai mai voluto bene, mamma?", disse Ale con la voce che le tremava.
"Perché è un tiepido. Un pavido. Un morto. E tu no..."
[…] "Non è vero, mamma. Lui è vivo. E anche Aurora è viva. E anche io..."
"Tu sei come me. Non come lui."

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M. Corte, Expositio ad bestias

Fin dall'inizio del loro matrimonio, Gina e Armando erano stati capaci, con precisione scientifica, di estinguere ogni lira di uno stipendio ben prima del pagamento del successivo. Così, verso il venti del mese - e poi, con il passare degli anni e il nascere dei figli, verso il diciotto, il quindici e, negli ultimi tempi, persino il dodici o il dieci - li si vedeva comparire con quella loro aria da cani randagi sulla soglia della casa di Mario. Il rituale era ormai perfettamente collaudato: essi tacevano, in attesa che Mario o sua moglie Lucia ponessero quella che era insieme la più convenzionale e la più incauta delle domande: "Come va?". Una domanda che Armando e Gina, con la loro consumata esperienza, avevano cessato da tempo di porre a chicchessia e che - per quel senso di vuoto ipnotico che si prova di fronte a chi è talmente impudente da rinunciare in partenza a qualunque espressione di cortesia - riuscivano a estorcere assolutamente a chiunque, anche al loro peggior nemico. La risposta a quella fatale domanda consisteva di norma in un rapido scambio di sguardi tra marito e moglie, seguìto da un subitaneo sfogo di pianto di Gina, durante il quale Armando, impegnato ad atteggiare il viso a una smorfia di dolore, stentava a reprimere il mezzo sorriso che andava distorcendo i suoi muscoli facciali per la gioia dell'impresa già riuscita a metà. Il seguito della visita era una pura formalità: da qualche parte spuntava un portafogli da cui venivano estratte alcune banconote che Armando e Gina respingevano con gesti disperati, fino a quando Mario o Lucia non riuscivano a premerle con forza nella palma di una mano che si divincolava, richiudendovi attorno le dita, tese in una estrema difesa della dignità ferita. A quel punto, un improvviso appuntamento preso con qualche creditore (appuntamento che rendeva inconcepibile la strenua resistenza fisica opposta alla consegna del denaro qualche istante prima) strappava i due all'amorevole attenzione dei parenti, proiettandoli nuovamente nella loro enigmatica dimensione da naufragio. […] La Regola dettata dalla signora Jole voleva Armando non già incauto e disadattato, ma "estremamente sfortunato"[…]

[Mario] era impiegato in una azienda molto piccola, che alternava momenti felici a improvvisi rovesci, con conseguenti gravi rischi di sopravvivenza. Armando, al contrario, lavorava in una grande azienda generosamente sovvenzionata dallo Stato, e una gestione accorta del proprio impiego gli avrebbe consentito di navigare attraverso acque tranquille verso una pensione tanto lontana quanto sicura, galleggiando su quattordicesime, straordinari, prestiti agevolati e consistenti possibilità (se non formalmente consentite, di fatto tollerate) di arrotondare lo stipendio con qualche altra attività, visti gli orari di lavoro poco più che simbolici. Il guaio era che Armando, dopo la scomparsa di Antonio, aveva di fatto sostituito quest'ultimo nel cuore dei familiari. E quell'impressione di fragilità, di inconsistenza, di incorporeità, di Nulla che ormai la famiglia associava all'idea di un primogenito naturale, si era trasferita in quello che adesso era il primogenito di fatto. E i fantasmi dello stesso insondabile ignoto che aveva risucchiato Antonio avevano trovato rifugio in Armando, il quale un giorno, svegliandosi alla nuova condizione, si era scoperto fragile, inconsistente, incorporeo, nullificato come il fratello perduto. Diverso era stato il cammino di Mario, il quale, fin dalla partenza di Antonio per la guerra, aveva ben compreso di non essere affatto designato a compensare quel vuoto d'amore, ma di avere invece un'insperata occasione per giustificare un'esistenza la cui superfluità trovava efficace sintesi nella definizione di "bocca in più da sfamare" con cui si alludeva a lui nella maggioranza dei discorsi di famiglia. La modalità naturale per cogliere quell'occasione era provvedere ai bisogni concreti della famiglia […]

E allora era stato Mario, durante la guerra e negli anni immediatamente successivi, a tenere in piedi tutta quanta la baracca. Destinando ogni goccia di energia al lavoro, era riuscito non solo a provvedere ai bisogni primari della famiglia, ma aveva anche finanziato tutta una serie di eccentriche attività dei suoi componenti. In primo luogo le stramberie erboristiche di suo padre, il quale, con l'illusione di poter tornare a recitare in teatro come attorgiovane e diventare ricco, dedicava tempo e soldi a mettere a punto un medicamento che avrebbe dovuto fargli scomparire le rughe dal volto, e per il quale, indipendentemente da quel fine artistico, preconizzava destini miliardari. In secondo luogo le disanimate passioni del fratello, il quale, sempre tra le mura della sua stanza, era stato poeta, pittore, scultore e infine astrofisico, prima di tentare una carriera di calciatore stroncata ben presto dalla inopinata esclusione dalla rosa dei titolari della Robur-Tibur, squadra di II categoria che si diceva venisse sovente spiata da osservatori di grandi club nazionali. In terzo luogo, i capricci di Giunta, la quale, "portata naturalmente per la musica", aveva attraversato praticamente tutti gli strumenti musicali esclusi quelli a fiato (e ovviamente le lezioni dei rispettivi insegnanti) prima di concludere che la sua vera vocazione era il canto e di concedersi le lezioni di uno dei maggiori contralto del Paese, dietro pagamento di un compenso la cui accettazione aveva sorpreso persino lo stesso contralto. E infine le smanie di pensione di sua madre Jole, che invidiava al marito gli ozi creativi e le chimeriche attività, i lunghi pomeriggi in compagnia delle parole crociate e le passeggiate serali per vedere il tramonto e la stella vespertina sulla desolata landa del Pratone vicino casa: per ottenere tutto questo, la mamma aveva estorto a Mario i soldi per una donna a ore, che però (vinta dalla severità imperiale di Jole e da tutto quel carnevale di esercizi di canto, fumi di bolliture d'erbe ed enunciazioni di leggi astrofisiche intercalate da palleggi in terrazza) aveva resistito appunto solo qualche ora, aprendo la strada ad un inesauribile avvicendarsi di domestiche.

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M. Corte, Expositio ad bestias

Zagleide indicò a Jole la baionetta che giaceva a terra e con l’altra mano simulò l'inequivocabile gesto del taglio della testa, mentre la Cocullo le indicava il bambino.
Jole, sempre più inorridita, fece un passo indietro e disse:
"Ma è atroce".
"Hai promesso di fare la volontà di Zagleide...", dissero all'unisono Teresilla e Lucilla, parlando per la prima volta. Le loro voci erano dolci e incantatrici, come quelle delle sirene.
"Ma... Quel bambino è..."
"... Sangue di nemico... Da lì viene la Fortuna...", la incalzarono sempre in coro le streghe.
[…] "Ma... non c'è un altro modo?"
"No: non c'è un altro modo", risposero con voce canora Teresilla e Lucilla. "La Fortuna passa dal sangue di chi ce l'ha al sangue di chi non ce l'ha."
[…] Jole si inginocchiò piangendo e tra i singhiozzi gridò:
"Fatelo voi... Vi supplico. Io me ne vado. Non voglio sapere quello che fate".
Per tutta risposta, Zagleide, sbuffando come un toro, […] porse l'arma a Jole, che se la ritrovò in mano.
Allora, la signora Cocullo le si avvicinò, le mise affettuosamente un braccio attorno alle spalle e le sussurrò in un orecchio:
"Tante quèllo mòre lo stèsse: è malate..."
"Malato?"
"Co' tutte l'Agnisdè che j'hanne levàte […], quanto volète che vive?"
Una forza torbida si impadronì di Jole, infuocandole gli occhi e facendole vibrare e tendere ogni muscolo. Con il gesto isterico di chi vuol farla finita, serrò la mano attorno al manico dell'arma tanto strettamente quanto le palpebre contro gli occhi e cominciò a vibrare alla cieca colpi su colpi, finché l'urlo delle streghe non le indicò che l'atto era compiuto.

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M. Corte, La scavatrice

Spinse dolcemente la porta e si vide davanti il volto enigmatico del professor Accardo, il quale accompagnò l’apertura della porta tenendo sempre la mano sulla maniglia. Guardando fisso negli occhi Michelino, Accardo gli fece un gesto con il mento, indicandogli di sedersi al suo posto. Il sorriso fiducioso di Michelino si spense come un fiammifero e per una ragione incomprensibile un brivido di paura gli corse lungo la schiena. […] Accardo prese posto in cattedra e finalmente il suo volto si aprì in un caldo sorriso. Michelino tornò timidamente a respirare. Allora l’insegnante, con solenne bonarietà, guardò nella sua direzione. Quindi aprì la bocca e, sempre sorridendo, disse:
"Bravo, Santovito: undicesimo. Pensate: undicesimo, su tutti gli alunni di tutte le scuole medie della città!".
Dopo una breve pausa, durante la quale aveva continuato ad annuire guardando Santovito con un sorriso paterno e uno sguardo vagamente nostalgico, il professor Accardo riprese a parlare:
"E bravo anche Trotta: novantottesimo. Un ottimo piazzamento. Bravo anche Roggi, il vostro compagno di III, che si è classificato quarantanovesimo".
Mentre tutto il creato sembrava attendere con il fiato sospeso il seguito del discorso, il professor Gerardo Accardo pronunciò con orgoglio la frase che concludeva il giro delle congratulazioni:
"Sono molto orgoglioso di voi. Bravi. Bravi. Bravi. E bravi anche tutti gli altri".
E mentre le sue mani si congiungevano per agitarsi in alto in un gesto di vittoriosa gratitudine, la classe restava interdetta, non comprendendo ancora se fosse giunto il momento dell’applauso. Fu lo stesso professore a sciogliere l’incertezza, cominciando a battere lentamente ma con fragore profondo le sue grandi mani, che si trascinarono dietro un applauso corale prima timido, poi sempre più vigoroso. E quell’applauso irruppe nell’incubo in cui Michelino era precipitato distorcendosi in un suono beffardo, irridente, maligno.

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M. Corte, La scavatrice

Uscendo dalla scuola beffato e sconfitto proprio in quello che doveva essere un giorno di vittoria, Michelino pensò che la cosa più amara di tutta quella faccenda non era il fatto che il professore, per qualche suo oscuro motivo, gli avesse negato una qualunque parola di elogio, ma la certezza angosciosa che nessun compagno avrebbe mai sentito il bisogno di soffermarsi con un altro compagno a commentare il silenzio del professore e a chiedersene il perché. Così, tanto per parlare di qualcosa, come si parla del cappello a caciotta di Matematica o dei denti in fuori di Inglese. Non per solidarietà, ma solo per curiosità. […] E Michelino alternò lunghi silenzi a nuovi tentativi di denuncia, continuando a dibattersi per non inspirare l'aria tossica di una realtà in cui gli eventi percepiti da un individuo isolato equivalgono al frutto della fantasia di un folle, e il tentativo di condividere l'esperienza di tali eventi può assumere l'aspetto di una ignobile calunnia ai danni di qualche innocente. Finché, in una mattina luminosa di un fine settembre carico di odori di quaderni e matite, Michelino trovò la pietra filosofale nascosta dentro la più recondita intimità del suo esilio: la pacificante certezza che se la verità è ciò che un'autorità buona dice, ciò che essa tace non può che essere menzogna. E del concorso di disegno non rimase più alcuna traccia, neanche nella memoria […] E a scuola, come Michelino si aspettava, nessuno parlò mai più di quell'inverosimile concorso, la cui non esistenza divenne per lui il sentiero che riportava a Santovito, a Trotta, a tutti i suoi amici più cari, e al professore di Disegno, il quale, contro ogni logica, avrebbe continuato a promuoverlo.

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M. Corte, Angelo

[Ivan] era sempre spossantemente innamorato di Livia, la quale però aveva deciso di espiare la sua colpa con la rinuncia allo stesso Ivan, anziché ad Angelo. Così, nelle rare occasioni in cui capitò loro di incontrarsi, Livia e Ivan soffrirono i dolori di un inferno tanto torturante quanto inevitato: lei, segretamente, amava Ivan, ma non trovava giusto dividersi tra lui e Angelo, dal quale non riusciva comunque a staccarsi perché le infiammava le vene con la passione devastante di un’assoluta schiavitù del sesso; Ivan, d’altra parte, che sarebbe stato disposto a tornare con lei e che sentiva da lei segretamente corrisposto lo stesso torrenziale affetto del cuore che scorreva in lui, era costretto a ingurgitare discorsi e atteggiamenti formali che gli si annodavano in gola, soffocandolo nella stretta di una disperazione che mai traboccava nelle lacrime, ma sempre nella dipendenza assoluta. L’ultima volta che la incontrò, prima che tra loro si aprisse l’abisso incolmabile degli anni, lei gli disse, con un tono di voce preso in prestito dal nulla: "So che ti vedi con Marisella. Sono contenta. Te la meriteresti proprio, una ragazza come lei". E lui, con un tono di voce preso in prestito dall’intelligenza, le rispose: "Marisella sa che mi vedo con te. È contenta. Me la meriterei proprio, una ragazza come te". Era una dichiarazione di stima perfetta e d’amore assoluto; ma lei non la comprese. E concluse: "Non essere geloso di Angelo. Tu sei e resti unico". Ivan fece appena a tempo a depositarla sotto il suo portone, poi poté finalmente scaricare le cateratte del fiume che gli premeva dentro gli occhi da mesi, finendo di piangere contro un muro, dopo l’innocuo testa-coda con il quale la sua Seicento aveva voluto ricordargli che anche lei impazziva di dolore al ricordo dei baci di cui lui e Livia, una volta, l’avevano impregnata.

[…] Una volta fuori abbracciò Marisella, abbandonandosi nelle sue braccia come un atleta si abbandona tra quelle dell’allenatore dopo una corsa vinta. Marisella fremette e sembrò squagliarsi di passione in quel gesto, che invece per Ivan era assolutamente innocente. Camminarono per un po’ abbracciati e una volta fuori lei chiese a Ivan di sedersi su una panca di pietra.
"Devo dirti due cose. Una brutta e una... non lo so, forse è brutta anche la seconda. La prima è che Angelo e Livia si sposano perché lei è in stato interessante"...
Ivan […] stava per svenire e si aggrappò all’ambiguità di quell’irritante espressione censurata […] "Che vuol dire? Interessante. Ma come parli? A chi interessa esattamente il suo stato? Eh? […]"
"Insomma è incinta."
"Ah, ecco", disse Ivan con il tono di chi vuol dimostrare quanto è conveniente parlar chiaro. E quanto una sentenza di morte, se pronunciata con chiarezza, può essere una cosa assolutamente normale. Accettabile. Sana. Naturale. Sembrava che si accingesse a dire: "Bene bene bene. Ora cosa si fa di bello?". Ma non lo disse, perché mentre sprofondava nella colata lavica del dolore definitivo, vide un’anima che viaggiava, come un uccello che scende dal cielo. La sua Livia che abbracciava l’anima viaggiante e se la posava in grembo. La vita. Il destino. La cosa più preziosa che hai che precipita in un abisso e tu che tendi le mani verso un orrore […] E non si accorse affatto di essersi alzato e di essersi lanciato in una corsa pazza, cieca, spezzata solo dall’abbraccio di Marisella che gli era corsa disperatamente dietro, né comprese che quel grido inumano che sentiva rimbombare nel cervello uscisse da lui fino a quando non si strozzò nelle labbra di Marisella, spalancate a risucchiarlo in sé e nel vortice mulinante di una bocca sconosciuta, di un amore consolatore che sapeva di denti puliti, di lacrime mischiate e di speranza.

[…] Ivan si ritrovò improvvisamente piombato in un nuovo incubo, inatteso e terrificante. Marisella, l’incarnazione del conforto e del calore, gli era diventata nemica […]. Lui cominciò a sentirsi la parte debole nella loro coppia, la parte inceppata, quella che non funzionava. Marisella continuava a concedergli il suo tempo e il suo amore, ma da una posizione di preoccupata superiorità, come un capofamiglia che concede a un cognato disoccupato di sedere alla stessa mensa dei suoi figli.
[…] Poi, un giorno di fine autunno, mentre su una panca gelata di un parco di periferia appoggiava il capo sulle ginocchia di Marisella chiedendole disperatamente aiuto, lei parlò:
"Vedi, Ivan, il tuo problema è che ancora non sei veramente un uomo. Sei un po’ un bambino. E per una donna è tanto pesante portarsi dietro un bambino. Io ti voglio bene, e lo faccio volentieri. Ma ti assicuro che ci vuole tanta forza di sopportazione." Ivan, che ormai si sentiva più un vecchio che un bambino, ebbe l’impressione di aver già vissuto tante volte nella sua vita, o in altre vite, quello stesso momento. Si sollevò dalla sua posizione, che ormai appariva ridicola, e la guardò negli occhi. Lei, la donna, abbassò lo sguardo, ma lui, il bambino, continuò a fissarla, come fanno i bambini con i grandi quando i grandi si sentono in colpa e cercano di evitare quegli occhi implacabili.
[…] La inchiodò alla sua menzogna. […] Si ricordò di quando, qualche settimana prima, avevano visto Angelo e Livia e la piccola Deborah sfilare lentamente, come in un sogno, dall’altra parte della strada. Marisella aveva teso il collo come un cagnolino che annusa un buon odore e nei suoi occhi era apparso il segno di un’angosciosa sospensione. Si era ripresa fingendo di essere preda di un delicato pensiero, e aveva detto: "Però, che bella cosa i bambini... Chissà noi... Quando...". Angelo. Quando Ivan ebbe pronunciato la parola, Marisella si sciolse in una commozione liberatoria, infantile e crudele: "Mi manca tanto. Tanto. Scusami ma è così. Mi fa pena. Mi fa tanta pena. Ha bisogno d’aiuto. La sua vita non è vita: lavoro, casa, pannolini, biberon e mogliettina… Ma ce lo vedi uno come lui a fare questa vita? E poi con lei non c’è amore. È infelice. Tanto infelice. Vederlo ridotto così dovrebbe suscitare pietà anche in te, che lo odi tanto. Ha bisogno d’aiuto. Ma è in trappola. Come fa? Come fa a lasciare tutto, come fa a lasciare quella creatura? Ha bisogno d’aiuto. Ha bisogno di me. Io non gli chiedo niente in cambio. E lui non mi chiede niente. Ma mi fa sentire che valgo qualcosa. E per una donna è tanto importante sentire di valere qualcosa".

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M. Corte, La scavatrice

Un nodo troppo grosso si andò coagulando nella gola di Michelino, che cominciò a piangere coprendosi gli occhi con le mani e sussultando in silenzio. Accanto a lui Santovito, rosso come un peperone e con il volto contratto dall'imbarazzo, agitò per un attimo la mano a mezz'aria, come per tentare un gesto di soccorso nei confronti dell'amico, ma si frenò, smorzando il gesto in una improbabile mossa di sgranchimento delle dita. "Questo lo sistemo io", tuonò Accardo. Paonazzo in volto […], Accardo in due balzi fu accanto al banco di Michelino, gli afferrò un orecchio e prese a torcerglielo scientificamente, facendolo ruotare oltre ogni possibile sopportazione, finché Michelino non mandò un urlo. […] I singhiozzi del ragazzo, che non lasciavano spazio ad alcuna parola, […] decisero il professore ad andare ancora più in là. Trascinando Michelino per l'orecchio sempre ben stretto e contorto, lo fece alzare, lo condusse accanto alla cattedra e, come un fucilatore che si accinga a giustiziare un condannato, lo costrinse brutalmente in ginocchio, con la faccia al muro.

[…] Era il giovedì successivo a quello della scenata. Nella settimana trascorsa, gli occhi di Michelino avevano dovuto sostenere l'umiliazione dell'incontro con gli sguardi dei compagni, i quali gli avevano negato qualsiasi tipo di commento, evitandolo e isolandolo come se di lui fosse stato rivelato, quel giovedì mattina, chissà quale nefando vizio. Nessuno, tranne Santovito, lo salutava più per primo, e anzi rispondevano al suo saluto quasi infastiditi, come se, anziché un "ciao" da un compagno, avessero ricevuto una richiesta di spiccioli da un tipo equivoco. Quando poi qualcuno, soprappensiero, si sorprendeva a rivolgergli la parola o a chiedergli uno sguardo di consenso durante i racconti di barzellette in gruppo, riconosciuta la propria gaffe, veniva colto dall'imbarazzo e volgeva lo sguardo altrove, come una ragazza che si accorga di aver chiesto un'informazione proprio all'uomo che poco prima le aveva rivolto un complimento ignobile.

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M. Corte, L'amministratore

Massimo lasciò andare la maniglia del portone, che si richiuse da sé. Pensò ad Ale. Do not forsake me, oh my Darling, cominciò a canticchiare mentalmente. Mezzogiorno di fuoco. In effetti era quasi mezzogiorno. E lui era solo, come lo sceriffo Kane. "Ti amo", disse sottovoce. E gli parve di sentire la voce di Ale che gli sussurrava "Ti amo" nell’orecchio. Si voltò verso i due e a passi lenti e misurati li raggiunse. Lo sentirono arrivare ma nessuno lo degnò della minima attenzione. Massimo lo aveva previsto. Fissò lo sguardo sulla nuca impudente dell’amministratore. Poi parlò:
"Signor amministratore, mi scusi...", esordì con affettata umiltà, "Lei non risponde mai al saluto oppure ha qualcosa di personale con me?".
L’intero creato sembrò piombare nel silenzio. Un silenzio primordiale, magmatico, preverbale. Il portiere fu il primo a reagire. Lo guardò con la bocca aperta e gli occhi fuori dalle orbite, come se Massimo avesse appena rovesciato un sacro calice pieno di ostie e si fosse messo a calpestarle selvaggiamente.
L’amministratore, invece, smettendo finalmente di fissare le sue carte, fece ruotare lentissimamente la testa fino a raggiungere Massimo con lo sguardo. Gli occhiali sul naso e gli occhi ancora un po’ strabici per la concentrazione della lettura gli davano un aspetto tra l’estatico e l’ebete. Semisdraiato com’era sul bancone, sembrava un crapulone romano ubriaco adagiato sul triclinio a ingozzarsi di uova di quaglia.
"Che dice?", chiese al portiere con la voce asfittica e arrochita da quell’assurda posizione.
Il portiere restò muto a guardarlo. Era così intento ad attendere i suoi ordini che non riusciva neanche a rispondere al suo Signore.
"Ho chiesto", intervenne Massimo: "Lei non risponde mai al saluto oppure ha qualcosa di personale con me?".
Mentre il portiere si prendeva la testa tra le mani, l’amministratore fu attraversato da una specie di tremito che gli percorse tutto il corpo. Rabbrividendo ancora un poco, spalancò la bocca in uno straordinario sbadiglio, poi si ricompose in una posizione più aggraziata, raddrizzandosi a sedere sul bancone. Sembrò svegliarsi da un sogno e il suo viso assunse istantaneamente una espressione di umana sollecitudine.
"Mi scusi tanto", disse con spontaneità. "Sono sempre distratto quando lavoro. No, s’immagini, niente di personale. E perché, poi? Lei è tanto una brava persona. Lei e la sua signora. Quando parlo di lei, ne parlo sempre con entusiasmo, con tutti. ‘Il nostro giornalista’, la chiamo. Leggo sempre i suoi articoli. L’ho vista anche in televisione, una volta, e ho detto a mia moglie: ‘Eccolo lì, il signore del pianoterra, il nostro giornalista. Mi scusi, veramente".
L’amministratore si alzò, andò verso Massimo e gli porse la mano, che Massimo strinse con calore. Mentre i due si stringevano la mano, il portiere guardava Massimo con un sorriso compiaciuto, come a volergli dire: "Benvenuto a bordo, amico. Visto che a forza di abbozzare, alla fine, un po’ di dignità umana ti è stata concessa?". Massimo lo ignorò.
Sempre senza guardare il portiere, Massimo guadagnò il portone, lo aprì e uscì, mentre l’amministratore gli ripeteva dietro: "Buongiorno, buongiorno, buongiorno, buongiorno...".

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M. Corte, Samuel Serrandi

[...] Alle quattro in punto, Serrandi suonò il campanello delicatamente.
"È lei, Dottor Serranda?"
"Dottor Samuel Serrandi. Apra pure con fiducia."
[...] "Lei, Dottor Serramenti, è laureato in Legge, vero?"
"Serrandi. Sì, in Giurisprudenza. E anche in Lingue."
"Con chi si è laureato in Legge?"
"Allora, in Giurisprudenza. Aspetti, ma lo sa che non me lo ricordo? Ah sì, con uno che si chiamava Rossi. Un tipo... Non le dico...Pensi che una volta..."
"Quando ho detto con chi, intendevo con quale cattedra."
"Con quale cattedra, lei mi dice... Con la cattedra... Quella classica di Giurisprudenza... È ovvio."
"E qual è quella classica di Giurisprudenza?"
"... Diritto…"
"Che Diritto?"
"Diritto... di precedura..."
"Diritto di precedenza? Ma che sta dicendo?"
Il faccione di Serrandi era diventato paonazzo. Cominciò a tossicchiare e a raschiarsi la gola. Poi finse di aver sentito il suo cellulare suonare e chiedendo scusa con voce afona se ne andò in corridoio, dove improvvisò una conversazione telefonica ad alta voce con un
fantasma. Quando tornò era di nuovo tutto allegro e cominciò a parlare di un certo suo cliente, un famoso cardiochirurgo inglese, che lo aveva invitato a prendere il tè alle cinque. E poiché gli inglesi non tollerano ritardi, specialmente per il tè, era meglio sbrigarsi.
"Come si chiama il suo cardiochirurgo?"
"Oeh, mica è il
mio cardiochirurgo. Facciamo le corna. Lui è un cliente mio. Non io un cliente suo", disse con un tono furbesco. Ma il sorriso gli si smorzò sulle labbra quando Massimo gli ripeté: "Come si chiama?".
"Eh… si chiama… Smith. Professor Smith, di Londra."
"Mi faccia capire, lei si laurea con un certo Rossi, il suo miglior cliente si chiama Smith. Scommetto che conosce anche il professor O’Hara di Dublino e il dottor Popov di Mosca, vero?"
Serrandi non arrivò neanche a comprendere la battuta, ma con l’aria di chi, schiumando livore, è obbligato a sorridere al nonno severo che gli sta per allungare la mancia natalizia, si sedette di nuovo. Poi sembrò avere un’idea improvvisa, lanciò a Massimo un’occhiata truce e cominciò a tirare fuori la copia del contratto già firmata.
"E in Lingue? In che lingua si è laureato?"
Gli occhi di Serrandi divennero per un attimo rossi di rabbia e la bocca gli prese una piega crudele. Non resistette e sbottò, stavolta, anche se nella sua battuta era presente una traccia di paziente bonarietà.
"Scusi, ma lei che vuole da me?"
"Io niente. Non sono stato mica io a raccontarle dei miei viaggi, delle mie preferenze gastronomiche e delle mie lauree. E adesso che finalmente, superato l’imbarazzo dei primi momenti, mi interesso agli argomenti a lei più cari, si risente pure?"
"No, per carità. Ci mancherebbe altro. È solo che ho un po’ di fretta..."
"Non le farò perdere tempo, glielo assicuro. Le chiedevo solo in che lingua si è laureato."
"Ho studiato un po’ tutte le lingue. Sa, quando uno è portato. E poi, dovendo viaggiare..."
"Io chiedevo quella della tesi, probabilmente la lingua quadriennale. Oppure le ha fatte un po’ tutte quadriennali?"
"Tutte, tutte. Guardi, mi sono impegnato in quella laurea come mai nella mia vita. Mi è venuto persino l’esaurimento nervoso. Beh, adesso è veramente ora di andare", concluse con la voce che gli tremava. Due goccioloni di sudore gli caddero sulla giacca di fresco-lana celeste, uno dopo l’altro.
[...] "Vede, signor Saracinesca..."
"Serrandi!", disse urlando e con gli occhi fuori dalle orbite, "… E la faccia finita con questo scherzo del cognome. Qui non siamo al cinema e lei non è Totò! Serrandi, se ancora non lo ha capito. Anzi, Dottor Serrandi, se non le dispiace!".
"Via: Dottore... ma la faccia finita lei. E adesso in che si sta laureando, in Filosofia?"
"Perché? Perché?? Che vuole dire? Eh? Che vuole da me, lei? Lo sa che la Champyon Edizioni e la Sisthematic Multimedial non prendono neanche in considerazione i curriculum dei diplomati? Sì: Filosofia. E allora?"
"Non si offenda. Sono convinto di quello che afferma. Anche perché non dubito affatto che la Champyon Edizioni e la Sisthematic Multimedial, ammesso che esistano, accettino solo laureati in Diritto di Precedenza e in Misto-Lingue. A proposito, la tesi in Filosofia su che verterà? Sulle monache di Leibniz?"
Serrandi si alzò come una furia, rimise il contratto nella borsa spiegazzandolo tutto, chiuse la borsa e si avviò verso la porta d’ingresso a grandi passi sonori. Poi gridò: "Ci rivedremo in Tribunale!" e sbatté fragorosamente la porta.
Massimo sedette in silenzio per qualche minuto. Poi si alzò e andò in corridoio, diretto verso la porta d’ingresso, ma subito notò Serrandi sprofondato in una delle poltroncine dell’antingresso, apparentemente alle prese con qualche malore.
"Pensavo che fosse uscito", disse Massimo con un tono inespressivo.
Serrandi, con un filo di voce, gli rispose: "Acqua. Per favore, un bicchiere d’acqua".
"Preferisce del tè? Infatti mi pare che il rito delle cinque con il cardiochirurgo britannico sia saltato."

[...] Massimo buttò i suoi fogli sul tavolo, si fregò le mani, le batté fragorosamente, e con tono conclusivo disse: "[...] Io non la pago".
"Sì che lei mi paga. O la denuncia parte oggi stesso."
"Anche questa parte oggi stesso. E questa è vera, la sua denuncia no", disse con calma Massimo porgendogli l’altro foglio, quello che prima aveva tenuto stretto assieme all’assegno. Era la fotocopia della raccomandata di recesso dal contratto n. 6646 stipulato il giorno prima, "ai sensi e per gli effetti dell’art. 6 Decreto legislativo n. 50 del 15.1.92"...
Serrandi digrignò i denti come un cane arrabbiato e brandì un grosso pugno che sembrava il maglio di un dio nordico. La sua faccia era violacea e la folta capigliatura bionda sembrava arruffarsi a vista d’occhio come la criniera di un leone infuriato.
"Se mi mette le mani addosso mi basterà chiamare ad alta voce il mio vicino di casa. Nella vita fa il commissario di pubblica sicurezza, ma forse può essere interessato ai suoi programmi di editoria elettronica. Chissà. Non si può mai sapere. Sempre che lei non mi rompa la faccia."
Serrandi era schiantato.

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M. Corte, La maschera

"Perché non gli hai mai voluto bene, mamma?", disse Ale con la voce che le tremava.
"Perché è un tiepido. Un pavido. Un morto. E tu no..."
[...] "Non è vero, mamma. Lui è vivo. E anche Aurora è viva. E anche io..."
"Tu sei come me. Non come lui."
Ale, che ormai singhiozzava, ripeté:
"Perché non gli vuoi bene? Perché?"
[...] "La cosa che non riuscirò mai a capire è perché te lo sei preso. Perché proprio lui?"
"Mamma..."
"Perché? Rispondimi, figlia mia. Perché?", la incalzò la madre, prendendo improvvisamente un tono implorante.
"... Mamma...", sussurrò nuovamente Ale, e istintivamente allungò una mano verso di lei nel gesto di toglierle una maschera.
"Perché?", ripeté la madre ritraendosi, mentre la sua figura, ora attonita, si sfaldava lentamente.
[...] "... Perché... ", cominciò Ale senza riuscire a proseguire la frase...
Poi, mentre l’oscurità si spandeva nella cucina e della voce di sua madre restava solo un’eco ritmica e asfittica, nel farfuglio del pianto riuscì a dire:
"... mi vuole bene".

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M. Corte, Samuel Serrandi

Massimo cominciò a provare un sentimento fondamentale che gli saliva dal profondo. Non si trattava né di esasperazione né di sdegno né di solidarietà. Quelli erano termini da telegiornale. Vuoti. Non esprimevano nient’altro che la trita retorica di una società che non riesce a provare sentimenti e allora ne ribiascica manieristiche contraffazioni. No: quello che provava Massimo in quel momento era qualcosa di ben diverso. Era un sentimento talmente innocente da sembrare luciferico, talmente naturale da sembrare depravato, talmente umano da sembrare bestiale. Era odio. E mentre le strutture interiorizzate dell’etica, del buon senso, della religione, della legge, del vivere civile echeggiavano contro di lui i loro slogan di condanna, lui era inchiodato alla terribile scoperta che l’odio non è affatto il contrario dell’amore, ma una drammatica fase difensiva per arrivare al perdono, e di lì all’inafferrabile amore per il prossimo. Un prossimo che in questo caso si chiamava Samuel Serrandi. Dottor Samuel Serrandi. Con una luce ghiacciata negli occhi, si dispose ad aspettare. Tra i potenziali clienti degli indispensabili "programmi speciali di editoria elettronica" c’era anche lui.
[...] Aveva resistito sorretto dal misterioso sentimento che in un primo momento aveva chiamato odio, ma che da qualche ora aveva più propriamente cominciato a definire "istinto di conservazione". Conservazione della specie degli innocenti, che forse valeva la pena di considerare protetta come certe specie animali, perché anch’essa a rischio d’estinzione. Non solo i Serrandi stanno ai Limandi come i cacciatori stanno al capriolo, ma nella lotta tra i Serrandi e i Limandi, i primi possono godere di un pubblico formalmente contrario ma sostanzialmente comprensivo, se non addirittura amico. Anche per questo Massimo non aveva raccontato a nessuno della sua scoperta. Per non esporre Luigi a una vergogna definitiva che la sua stessa morte avrebbe sancito, anziché stemperarla (immaginava già i commenti degli amici e dei colleghi: "Beh, proprio scemo a farsi fregare in quel modo"... "Se l’è proprio voluta lui..." "È proprio da Guinness dei primati: la morte più cretina del secolo..."); ma anche per non trasformare il furbismo di Serrandi in una specie di mito, negativo magari, ma pur sempre un mito a confronto dell’imbecillità di Luigi; e per non lasciargli neanche l’onore di essere stato il boia furbo di un condannato fesso.

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